Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 28


 Articolo 28

Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati.


  • Articolo 28 – Abbiamo diritto alla pace. Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

E’ il diritto umano alla pace: pace interna e pace internazionale, pace nella giustizia (opus iustitiae pax). La giustizia è quella dei diritti umani, cioè è anche giustizia sociale ed economica. La pace proclamata dall’Articolo 28 è, per seguire Norberto Bobbio, pace positiva, intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione all’insegna di: “se vuoi la pace, prepara la pace”. Il contrario della pace negativa, cioè della mera assenza di guerre guerreggiate, come parentesi tra una guerra e la successiva, da vivere preparandosi alla prossima guerra potenziando gli arsenali militari e coltivando sentimenti nazionalistici a difesa dell’interesse nazionale, da perseguire ovunque nel mondo e con ogni strumento, compresa appunto la guerra.
In questa ottica di pace negativa ha vissuto il mondo nei secoli passati. Finchè è sopraggiunta nel 1945 la Carta delle Nazioni Unite la quale ha innovato, anzi rivoluzionato quel vecchio Diritto internazionale che, assumendo il principio di sovranità degli stati a suo fondamento, ne legittimava i due attributi principali: il diritto di fare la guerra (ius ad bellum) e il diritto di fare la pace (ius ad pacem), messi sullo stesso piano, alla mercè della convenienza e della forza degli stati più potenti. Nel corso dei secoli, l’esercizio del diritto di far la guerra ha di gran lunga prevalso sull’esercizio del diritto di fare la pace.

Il ‘nuovo’ Diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite definisce la guerra come ‘flagello’, la ripudia e la interdice. L’uso della forza militare, per fini diversi da quelli tipici della guerra, dunque per fini di giustizia (difendere la vita delle popolazioni, salvaguardare l’ambiente e le infrastrutture vitali, acciuffare i presunti criminali e consegnarli ai tribunali internazionali, ecc.) è avocato all’ONU quale autorità sopranazionale, deputata a gestire il sistema di sicurezza internazionale.

A conferma che la guerra è interdetta dal vigente Diritto internazionale c’è l’Articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 che perentoriamente prescrive: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalle legge”.
La Carta delle Nazioni Unite è coerente: la guerra è vietata e gli stati sono obbligati a far funzionare il sistema di sicurezza collettiva, anche per prevenire il ricorso all’Articolo 51 della Carta il quale, a titolo di eccezione rigorosamente circostanziata, prevede che gli stati possano usare lo strumento militare per respingere un attacco armato con l’obbligo però di immediatamente informare il Consiglio di Sicurezza perché metta la situazione sotto la propria autorità e controllo.

Ma la Carta, a quasi sette decenni dalla sua entrata in vigore, rimane inattuata per le parti più delicate: gli stati hanno l’obbligo di conferire parte delle loro forze militari, in via permanente, alle Nazioni Unite, ma finora nessuo di essi ha adempiuto a tale obbligo. Sicchè l’ONU, nei casi di necessità, deve chiedere agli stati che le facciano l’elemosina di gruppetti di Caschi Blu, con tutti i ritardi, le impreparazioni e altri tipi di inadeguatezze che non poche ‘missioni di pace delle Nazioni Unite’ hanno mostrato.
A partire dal 1948, cioè poco dopo l’entrata in campo delle Nazioni Unite, il mondo venne a trovarsi in regime bipolare, cioè di guerra fredda o di equilibrio del terrore, a causa della contrapposizione ideologica, politica e strategica dei due Blocchi capeggiati rispettivamente da Stati Uniti e Unione Sovietica, con sfrenata corsa al riarmo sia convenzionale sia nucleare. Non c’è stata una guerra mondiale, le guerre sono state esportate nei paesi del sud del mondo. Per le questioni di pace e sicurezza rimaneva poco spazio all’ONU nella sua funzione di autorità sopranazionale. Nel 1989 crollano i Muri, finisce l’epoca del bipolarismo, si respira un’aria nuova, ha fine il tempo dell’esilio dell’ONU. Il Consiglio di Sicurezza commissiona a Boutros-Boutros Ghali, Segretario Generale delle Nazioni Unite,  il famoso Rapporto “Un’Agenda per la Pace”, in cui l’energico Segretario Generale delle Nazioni Unite mette gli stati di fronte al muro delle loro responsabilità dicendo: non avete più alibi per non far funzionare l’Organizzazione delle Nazioni Unite nel delicato campo della pace e della sicurezza internazionale. La risposta è di tutt’altro segno. Boutros Ghali non sarà rieletto a causa del veto opposto dagli Usa. Il Presidente Bush senior, parla della necessità di un “nuovo ordine mondiale”, al cui interno avrebbero dovuto riprendere vigore i principi del vecchio Diritto internazionale esaltante la sovranità degli stati, con relativi muscoli armati, e le Nazioni Unite avrebbero dovuto accontentarsi di un ruolo ancillare. Una concezione di ordine mondiale diametralmente opposta a quella contenuta nella Carta delle Nazioni Unite e nell’Articolo 28 della Dichiarazione universale.

La delusione è grande. Il criminale dittatore dell’Iraq Saddam Hussein offre l’occasione per iniziare il decennio delle guerre guerreggiate. La superpotenza ne approfitta nel tentativo di riappropriarsi di quel diritto di fare la guerra che la Carta delle Nazioni Unite ha, dal punto di vista giuridico, cancellato una volta per tutte. Il terrorismo internazionale, nelle sue varie forme e matrici, atterrisce, uccide, prolifica. Si arriva alla seconda guerra del Golfo, teorizzata, propagandata e messa in pratica dalla superpotenza come “guerra preventiva” in flagrante violazione del vigente Diritto internazionale.

Nel frattempo, entrano in funzione prima i Tribunali internazionali speciali (per la ex Jugoslavia e per il Rwanda, 1993 e 1994), poi la Corte Penale Internazionale permanente (1998),  paladina del principio di universalità della giustizia penale internazionale. Le guerre continuano, sono illegali, non portano alla vittoria, si alimenta il terrorismo, si pratica la tortura in guanti più o meno bianchi, si restringono le libertà fondamentali con i ”Patriot Act”. Da ultimo, il mondo subisce il tracollo dell’economia mondiale basata sul neoliberismo e sulle speculazioni finanziarie in un contesto di rinnovata corsa al riarmo.
Più che mai, occorre agire perché il diritto umano delle persone e dei popoli alla pace sia rispettato secondo un’Agenda politica che esalti il primato della legalità dei diritti umani (la forza della legge) sulla richiamo della foresta della Realpolitik (la legge della forza).
Con tutta l’attenzione che merita, rileggiamo l’Articolo 11 della Costituzione Italiana, che è in perfetta sintonia col Diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite e sulla Dichiarazione universale: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internaizonali rivolte a tale scopo”.

Questo Articolo risulta oggi rafforzato sia dall’alto che dal basso: dall’alto, in virtù del Diritto internazionale quale si è venuto sviluppando a partire dal 1948;  dal basso, in virtù della norma “pace diritti umani” che è stata inclusa, a partire dal 1988, in numerose Leggi regionali (prima fra tutte quella del Veneto) e, a partire dal 1991, nei nuovi Statuti di migliaia di Comuni e Province. Questa norma recita, nel suo testo standard:
“Il Comune …, in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane, sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli – Carta delle Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti umani, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia – riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli.
A tal fine il Comune promuove la cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali e di ricerca, di educazione, di cooperazione e di informazione che tendono a fare del Comune una terra di pace.
Il Comune assumerà iniziative dirette e favorirà quelle di istituzioni culturali e scolastiche, associazioni, gruppi di volontariato e di cooperazione internazionale”.

Per un esempio, vale la pena di citare l’Articolo 2 dello Statuto del Comune di Vicenza:
“1. Il Comune, in conformità ai principi costituzionali ed alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane, sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli, riconosce nella pace un diritto fondamentale della persona e dei popoli.
2. A tal fine il Comune promuove una cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali e di ricerca, di educazione e di informazione, e con il sostegno alle associazioni che promuovono la solidarietà con le persone e con le popolazioni più povere.
3. Il Comune promuove l’inserimento degli immigrati e dei rifugiati politici nella comunità locale rimuovendo gli ostacoli che impediscono alle persone dimoranti nel territorio comunale di utilizzare i servizi essenziali offerti ai cittadini.
4. Il Comune, con riferimento alla “Dichiarazione universale dei diritti umani” approvata dall’ONU, riconosce il valore della vita umana e promuove ogni iniziativa di concreta solidarietà  verso ogni persona indipendentemente dalle sue condizioni fisiche, psichiche, economiche e sociali, dalle sue convinzioni politiche e religiose, dalla sua razza e dalla sua età”.

L’Articolo 5 dello Statuto della Provincia di Catanzaro:
“1. La Provincia di Catanzaro, in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che tutelano i diritti delle persone e sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli, riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli.
2. La Provincia promuove la cultura della pace e dei diritti umani e dichiara il proprio territorio terra di pace, ispirandosi alle garanzie della Carta delle Nazioni Unite, alla dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, al Patto Internazionale sui diritti civili e politici, alla Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia”.

L’Articolo 1 della legge regionale del Piemonte “Interventi regionali per la promozione di una cultura ed educazione di pace, per la cooperazione e la solidarietà internazionale”:
“1. La Regione Piemonte in coerenza con le norme, le dichiarazioni internazionali e i principi costituzionali, che sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, riconosce la pace come diritto fondamentale dei popoli e condizione irrinunciabile per il progresso civile, sociale ed economico.
2.  In attuazione di tali principi, anche ai sensi degli articoli 2 e 4 dello Statuto, la Regione interviene al fine di favorire il radicamento nella comunità piemontese della cultura di pace e dei suoi presupposti quali le libertà democratiche, i diritti umani, la non violenza, la solidarietà, la cooperazione internazionale e l’educazione allo sviluppo sostenibile.
3.   La Regione promuove iniziative sul territorio regionale nonché, nel rispetto dei limiti posti dalle leggi dello Stato, dei rapporti internazionali e ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49, sostiene, promuove e realizza interventi di aiuto e cooperazione con i Paesi in Via si Sviluppo (PVS) e Paesi dell’Europa Centrale e Orientale (PECO), anche in relazione ad eventi eccezionali causati da conflitti armati o calamità naturali.
4.   Le iniziative si ispirano ai principi sanciti e dettati dalle Nazioni Unite e alle risoluzioni delle conferenze internazionali sulla pace, la cooperazione e lo sviluppo evitando comunque interventi che possano essere utilizzati, direttamente o indirettamente, per attività di carattere militare”.

Il diritto alla pace, come diritto umano fondamentale, è ovviamente molto impegnativo per gli Stati e per quelle culture che ne esaltano gli attributi per così dire muscolosi della sovranità statual-nazionale. Se alla persona e ai popoli è riconosciuto il diritto alla pace, come diritto fondamentale, ne consegue che agli stati è automaticamente sottratto il diritto di far la guerra e viene loro imposto il dovere di far la pace. In latino suona molto bene: officium pacis invece di ius ad bellum. D’altronde la stessa Carta delle Nazioni Unite, con l’Articolo 4, stabilisce che possono diventare membri dell’ONU quegli Stati che sono “amanti della pace” (peace-loving States): si pensi allo scandalo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che sono ai primi posti della classifica dei paesi produttori ed esportatori di armi … L’Italia, non-membro permanente, non è da meno.
Qual è il contenuto dell’obbligo degli Stati di costruire la pace positiva? A titolo indicativo: impegnarsi, con determinazione, per far funzionare le Nazioni Unite e le altre legittime istituzioni multilaterali; impegnarsi perché l’Unione Europea, con una sola voce, faccia la scelta preferenziale delle Nazioni Unite per democratizzarle e potenziarle; disarmare; educare al rispetto dei diritti umani e formare il personale militare per le funzioni di pace positiva; istituire il Servizio civile di pace (con pertinenti Corpi civili di pace) in conformità con la Raccomandazione del Parlamento Europeo del 10 febbraio 1999 “sull’istituzione di un corpo civile di pace europeo”; non ospitare bombe atomiche (si viola il Trattato sulla non-proliferazione nucleare); non ospitare basi militari straniere, in particolare quelle il cui uso è contrario alla Carta delle Nazioni Unite e al vigente Diritto internazionale; denunciare i trattati (o comunque le intese, anche informali) riguardanti basi militari, in contrasto con l’Articolo 11 della Costituzione e con il Diritto internazionale dei diritti umani; destinare più fondi alla cooperazione internazionale per lo sviluppo; non intralciare le attività di cooperazione e solidarietà internazionale di Comuni, Province e Regioni; togliere il termine “guerra” dalla denominazione (con adeguamento dei contenuti formativi) delle Scuole militari di Civitavecchia e di Firenze in ottemperanza con quanto dispone il citato Articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977. Ne ripetiamo il testo, repetita iuvant: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”.

  • 1 persona su 113 costretta alla fuga nel mondo: le migrazioni forzate raggiungono i livelli più alti di sempre. Pubblicato il 20 giugno 2016, tratto da The UN Refugee Agency UNHCR

Nel 2015, guerra e persecuzioni hanno portato ad un significativo aumento delle migrazioni forzate nel mondo, che hanno toccato livelli mai raggiunti in precedenza e comportano sofferenze umane immense. Questo è quanto emerge dal rapporto annuale pubblicato oggi dall’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati.

Il rapporto annuale Global Trends dell’UNHCR, che traccia le migrazioni forzate nel mondo basandosi su dati forniti dai governi, dalle agenzie partner incluso l’Internal Displacement Monitoring Centre, e dai rapporti dell’organizzazione stessa, riporta circa 65.3 milioni di persone costrette alla fuga nel 2015, rispetto ai 59.5 milioni di un anno prima. Per la prima volta viene superata la soglia dei 60 milioni di persone.

Il totale di 65.3 milioni comprende 3.2 milioni di persone che erano in attesa di decisione sulla loro richiesta d’asilo in paesi industrializzati a fine 2015 (il più alto totale mai registrato dall’UNHCR), 21.3 milioni di rifugiati nel mondo (1.8 milioni in più rispetto al 2014 e il dato più alto dall’inizio degli anni novanta), e 40.8 milioni di persone costrette a fuggire dalla propria casa ma che si trovavano ancora all’interno dei confini del loro paese (il numero più alto mai registrato, in aumento di 2.6 milioni rispetto al 2014).

A livello globale, con una popolazione mondiale di 7.349 miliardi di persone, questi numeri significano che 1 persona su 113 è oggi un richiedente asilo, sfollato interno o rifugiato – un livello di rischio senza precedenti secondo l’UNHCR. In tutto, il numero di persone costrette alla fuga è più alto del numero di abitanti della Francia, del Regno Unito o dell’Italia[1].

In molte regioni del mondo le migrazioni forzate sono in aumento dalla metà degli anni novanta, in alcuni casi anche da prima, tuttavia il tasso di incremento si è alzato negli ultimi cinque anni. Le ragioni principali sono tre: le crisi che causano grandi flussi di rifugiati durano, in media, più a lungo (ad esempio, i conflitti in Somalia o Afghanistan stanno ormai entrando rispettivamente nel loro terzo e quarto decennio); è maggiore la  frequenza con cui si verificano nuove situazioni drammatiche o si riacutizzano crisi già in corso (la più grave oggi è la Siria, ma negli ultimi cinque anni anche Sud Sudan, Yemen, Burundi, Ucraina, Repubblica Centrafricana, etc.); la tempestività con cui si riescono a trovare soluzioni per rifugiati e sfollati interni è andata diminuendo dalla fine della Guerra Fredda. Fino a 10 anni fa, alla fine del 2005, l’UNHCR registrava circa 6 persone costrette a fuggire dalla propria casa ogni minuto. Oggi questo numero è salito a 24 ogni minuto, quasi il doppio della frequenza del respiro di una persona adulta.

  • Il diritto umano alla pace verso il riconoscimento internazionale da www.il dialogo.org (5 marzo 2015). Spunti di riflessione dal convegno a Roma

 

 

La prima relazione, quella di Antonio Papisca, è servita a dare il segno a tutto il Convegno. Papisca è noto, oltre che per la sua qualifica professionale indicata nel Programma del Convegno, anche per il suo impegno nella Campagna per il riconoscimento del Diritto alla Pace come fondamentale diritto umano, delle persone e dei popoli.
La Campagna è stata promossa dal Centro Diritti Umani e dalla Cattedra UNESCO Diritti Umani, Democrazia e Pace dell’Università di Padova, dal Coordinamento degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, dalla Rete della Perugia-Assisi e dai Francescani del Sacro Convento di San Francesco d’Assisi.
E’ stata la ricorrenza del Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale a fare avviare alle Nazioni Unite le procedure per una Dichiarazione sul Diritto alla Pace quale diritto umano fondamentale delle persone e dei popoli.

Proposte per la Dichiarazione vengono presentate al “Gruppo di lavoro intergovernativo” del Consiglio Diritti Umani, organo delle Nazioni Unite, con sede a Ginevra.

E’ da notare che il riconoscimento del diritto umano alla pace è stato già inserito ormai da molti anni negli Statuti di un gran numero di Comuni, Province e Regioni, anticipando il progetto delle Nazioni Unite.
E’ da ricordare l’atto solenne compiuto il 3 luglio 2014, a Roma nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, con la consegna al Presidente della Commissione Diritti Umani, Luigi Manconi, e al Presidente del Senato, Pietro Grasso, da parte dei rappresentanti degli Enti Locali e dell’associazionismo, delle prime 100 Delibere approvate (dell’Ordine del Giorno per il riconoscimento internazionale del diritto umano alla pace) e l’Appello sottoscritto da centinaia di personalità laiche e religiose del nostro paese.
In precedenza, il 23 giugno, il dossier contenente le 100 Delibere era stato consegnato a Ginevra in un incontro presso la sede delle Nazioni Unite.
Ora sono 1000 o più le Delibere degli Enti Locali ed il numero è destinato a crescere.
Novità di una iniziativa “dal basso” per il diritto umano alla pace.
Questa iniziativa, denominata “diplomazia delle città” (“City diplomacy”), sta proseguendo per fare sentire la pressione degli Enti Locali sul Governo e sul Parlamento, a sostegno dell’iniziativa delle Nazioni Unite.

Con l’Ordine del Giorno degli Enti Locali si “chiede al Parlamento e al Governo Italiano di partecipare attivamente alla messa a punto della Dichiarazione , innanzitutto affinché sia recepito quanto enunciato dall’articolo 1 della bozza di Dichiarazione elaborata dal Comitato Consultivo del Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, il cui testo così recita:

“1. Gli individui e i popoli hanno diritto alla pace. Questo diritto deve essere realizzato senza alcuna distinzione o discriminazione per ragioni di razza, discendenza, origine nazionale, etnica o sociale , colore, genere, orientamento sessuale, età, lingua, religione o credo, opinione politica o altra, condizione economica o ereditaria, diversa funzionalità fisica o mentale, stato civile, nascita o qualsiasi altra condizione.

2. Gli Stati, individualmente o congiuntamente, o quali membri di organizzazioni multilaterali, sono controparte principale (duty-holders) del diritto alla pace.

3. Il diritto alla pace è universale, indivisibile, interdipendente e interrelato.

4. Gli Stati sono tenuti per obbligo giuridico a rinunciare all’uso e alla minaccia della forza nelle relazioni internazionali.

5. Tutti gli Stati, in conformità ai principi della Carta delle Nazioni Unite, devono usare mezzi pacifici per risolvere qualsiasi controversia di cui siano parte.

6. Tutti gli Stati devono promuovere lo stabilimento, il mantenimento e il rafforzamento della pace internazionale in un sistema internazionale basato sul rispetto dei principi enunciati nella Carta delle Nazioni Unite e sulla promozione di tutti i diritti umani e libertà fondamentali, compresi il diritto allo sviluppo e il diritto dei popoli all’autodeterminazione”.

Nell’ “Appello per il riconoscimento del diritto umano alla pace”, del quale Antonio Papisca è il primo firmatario, si legge:
“Dopo cento anni di orribili massacri e crimini contro l’umanità è venuto il tempo di riconoscere che la pace è un diritto umano fondamentale della persona e dei popoli, pre-condizione necessaria per l’esercizio di tutti gli altri diritti umani. Un diritto che deve essere effettivamente riconosciuto, applicato e tutelato a tutti i livelli, dalle nostre città all’Onu.
… Il riconoscimento del diritto alla pace (ius ad pacem) obbligherà a cancellare il funesto diritto degli stati di fare la guerra (ius ad bellum) e a dare effettiva attuazione a quanto dispone l’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: ‘Ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e le libertà enunciati nella presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzati’”.

  • Film suggerito: Il figlio dell’altra di Lorraine Lévy (2013). Recensione di Paolo Mereghetti pubblicata sul Corriere

Con i «se» non si fa la storia. Eppure il cinema ogni tanto ci riesce, se non a cambiarne il corso per lo meno a farci vedere cosa potrebbe succedere se… È questo uno dei meriti del film Il figlio dell’altra di Lorraine Lévy, regista ebrea residente a Parigi, che ha rielaborato con Noam Fitoussi e Nathalie Saugeon uno spunto di cronaca per costruirne una storia esemplare della serie «cosa potrebbe succedere se…».

Nella finzione cinematografica tutto comincia quando il diciannovenne Joseph Silberg (Jules Sitruk) deve fare le visite mediche per il servizio militare. E alla madre (Emmanuelle Devos), medico lei pure, non sfugge che avendo due genitori di gruppo «A negativo» lui non può risultare «A positivo». Nuove analisi e nuova, definitiva conferma: «A positivo». Il primo dubbio, del marito (Pascal Elbé) e del medico curante, è quello di un tradimento consumato vent’anni prima, ma la donna nega con certezza (e sincerità) questa ipotesi. Bisogna trovare un’altra spiegazione perché le leggi della genetica non possono sbagliare e la spiegazione viene pian piano a galla: il giorno della nascita di Joseph, nel 1991, l’ospedale di Haifa era sotto il pericolo di un attacco di Scud iraniani (erano i giorni della Prima Guerra del Golfo) e la nursery era stata evacuata in tutta fretta. Troppo in fretta, evidentemente, perché il figlio dei signori Silberg era stato scambiato con quello dei signori Al Bezaaz. Non più ebrei, ma palestinesi.

La scelta vincente della regista, a questo punto, è quella di raccontare abbastanza in fretta lo scambio, senza perdersi in tante ricostruzioni o giustificazioni, per concentrarsi prima sulle reazioni degli adulti e poi su quelle dei due ragazzi di fronte a questa scoperta. Perché dopo aver fatto la conoscenza di Joseph, facciamo anche quella di Yacine (Mehdi Dehbi), figlio esemplare di una povera famiglia palestinese (povera perché rovinata dalla politica isolazionista di Israele che ha «costretto» il padre di Yacine a fare il meccanico per vivere nonostante la laurea in ingegneria). Il ragazzo palestinese si è appena diplomato a Parigi, dove vive una zia, e vuole fare il medico per poter aprire un ospedale popolare nel suo quartiere.

A questo punto la storia perde la sua particolarità cronachistica per aprirsi a riflessioni di più grande portata. I due padri diventano i simboli di due comunità che hanno introiettato il sospetto e il rancore reciproco e non a caso Lorraine Lévy ha fatto di Alon Silberg un colonnello che lavora al ministero della Difesa e di Said Al Bezaaz un convinto sostenitore delle ragioni palestinesi e delle loro rivendicazioni territoriali. Le madri invece sono meno segnate dalle ragioni della politica e cominciano a fare i conti con quelle del cuore e della carne. Allo stesso modo i due ragazzi (che significativamente scoprono la verità che li riguarda a causa di due diversi litigi familiari, a ribadire la natura non solo affettiva ma anche politica della loro condizione) cominciano a fare i conti con un’idea di vita diversa da quella che hanno sempre vissuto fino ad allora.

Tutti questi temi – che il montaggio di Sylvie Gadmer mette davanti allo spettatore in maniera il più diretta possibile, sfrondando ogni possibile divagazione melodrammatica per cogliere l’essenzialità delle cose – prima si intrecciano nella mente dello spettatore e poi pian piano prendono nuova forma e diversa importanza.

Non è più solo questione di amori materni e rigidità personali (che l’incontro col rabbino esemplifica magistralmente), bisogna anche fare i conti con le leggi della comunità, il giudizio degli amici, l’invasione della politica. È un mondo di abitudini e di comportamenti che viene messo in crisi dallo scambio di identità, portando i personaggi (e lo spettatore con loro) a riflettere su una vita che a volte sembra assolutamente «normale» (sulla spiaggia di Tel Aviv ma anche nelle strade del villaggio palestinese), e altre volte appare in tutta la sua crudeltà e sofferenza.

Man mano che la storia seguiva il suo percorso e i vari protagonisti faticavano a trovare un modo per risolvere la loro situazione, anch’io mi sono trovato a pensare come la regista avrebbe risolto tutte quelle contraddizioni, a immaginare una via di fuga o una soluzione possibile. E a ogni scena successiva il film mi sorprendeva per la sua capacità di non cercare scorciatoie o improbabili colpi di scena. Ero affascinato e completamente trascinato dentro la storia. Poi, a un certo momento, il film deve ben finire. E il modo in cui lo fa – con i due ragazzi che si invitano a «non sprecare la vita» – mi è sembrato uno dei più onesti e più indovinati possibili. Un finale dove i due protagonisti si interrogano sul loro futuro per un film che pone tante domande lasciando a chi guarda il compito di immaginare le risposte.

  • Promemoria di Gianni Rodari, tratto da Raccolta di poesie sulla Pace di Gianni Rodari (2003)

Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da far di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *