Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 23

 


Articolo 23

1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione. 
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. 
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.


Spunti di riflessione.

  • Articolo 23 – Per un lavoro dignitoso. Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

Il contenuto di questo Articolo è ulteriormente specificato dagli Articoli 6, 7 e 8 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, dove è innanzitutto stabilito che le misure che gli Stati sono obbligati a prendere “per dare piena attuazione a tale diritto”, dovranno comprendere “programmi di orientamento e di formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo” (corsivo aggiunto).
Il messaggio che proviene dal Diritto internazionale è chiaro: il settore del lavoro non può essere lasciato al libero arbitrio del mercato, ma deve costituire oggetto di politiche pubbliche nel quadro di una più ampia programmazione di stato sociale. E’ inoltre stabilito che deve esserci “la possibilità eguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell’anzianità di servizio e delle attitudini personali”. La meritocrazia trova qui i parametri conformi a dignità umana, come tali prioritari rispetto a qualsiasi altra tipologia.

Il diritto umano al lavoro trova anche riscontro nella Convenzione internazionale contro la discriminazione razziale, nella Convenzione internazionale contro ogni forma di discriminazione nei riguardi delle donne, nella Convenzione internazionale sui diritti dei bambini, nella Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, nella Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli e in tanti altri strumenti giuridici, internazionali e regionali-continentali.

Nell’interpretazione del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali il diritto al lavoro è un diritto che inerisce ad ogni persona ed è allo stesso tempo un diritto collettivo. Esso comprendente tutte le forme legittime di lavoro, dipendente o non.
La produzione di norme giuridiche internazionali in materia di lavoro ha il suo principale laboratorio nell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, OIL, con sede a Vienna. La sua Conferenza è formata da delegazioni nazionali ‘tripartite’, comprendenti i rappresentanti dei governi, dei sindacati dei lavoratori, delle organizzazioni padronali. Alcuni organi interni di controllo sull’applicazione della normativa sono formati da persone indipendenti dagli stati. Tra le molte Convenzioni OIL si segnala la numero 22 portante sulla politica dell’occupazione, la quale parla del diritto ad una “occupazione piena, produttiva e liberamente scelta”. Purtroppo questa prospettiva rimane molto lontana per milioni di esseri umani.

La disoccupazione e la mancanza di lavoro sicuro spingono i lavoratori a trovare occupazione nel settore informale dell’economia. Il vigente Diritto internazionale è molto deciso nello stigmatizzare sia il lavoro forzato sia il lavoro prestato in settori dell’economia informale. Il primo è definito dall’OIL come “qualsiasi lavoro o servizio esigito dalla persona sotto la minaccia di una qualsiasi penalità e per il quale la persona non si è offerta volontariamente”. Gli stati sono obbligati ad abolire, vietare e contrastare qualsiasi forma di lavoro forzato, come anche prescritto dall’articolo 5 della Convenzione sulla schiavitù. Gli stati devono altresì intervenire per ridurre quanto più possibile il numero di lavoratori che operano al di fuori dell’economia formale, obbligando i datori di lavoro a rispettare la legge e dichiarare i nomi dei loro lavoratori in modo da rendere possibile la garanzia dei loro diritti.

Gli stati sono inoltre obbligati a proibire il lavoro dei minori di sedici anni. Tra i loro obblighi, oltre quelli di assicurare non discriminazione, pari opportunità ed eguaglianza, c’è quello di adottare misure che assicurino che le misure di privatizzazione non ledano i diritti dei lavoratori. In particolare, il Comitato delle Nazioni Unite afferma senza mezzi termini che “specifiche misure destinate a incrementare la flexicurity dei mercati del lavoro non devono rendere il lavoro meno stabile o ridurre la protezione sociale dei lavoratori”.
Già, la flexicurity. Ci si può ubriacare (colpevolmente) di flexicurity così come avvenne con la deregulation. Anche in sede di Unione Europea c’è il rischio che si istituzionalizzi il vizio della flexicurity. Il Diritto internazionale dei diritti umani esige che, in tema di occupazione, si parta col piede giusto (anzi, obbligato), cioè dal diritto al lavoro come diritto fondamentale che è, allo stesso tempo, diritto alla piena occupazione e diritto allo stato sociale. Il diritto al lavoro come tale non ha pertanto nulla a che vedere con l’ideologia neoliberista e relative vischiose varianti.

Il diritto umano al lavoro è strettamente collegato ai cosiddetti diritti sindacali, a fondare e far parte di sindacati. Il Diritto internazionale ‘riconosce’ i sindacati, non parla invece di ‘partiti’, se non nel contesto regionale dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. E’ il caso di ricordare che dal 1961 è in vigore la Carta sociale europea, più volte riformata, sulla cui applicazione veglia il Consiglio d’Europa, in particolare attraverso il Comitato europeo dei diritti sociali, organo formato da esperti indipendenti. Ad esso possono presentare reclami proprio le associazioni sindacali e organizzazioni non governative. La Dichiarazione universale non fa cenno allo sciopero. Ci pensa invece l’Articolo 8 (1 comma, lettera d) del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, che impone agli stati l’obbligo di garantire “il diritto di sciopero, purchè esso venga esercitato in conformità alle leggi di ciascun paese”. Il rinvio è dunque alla legge nazionale, la quale deve però essere conforme ai principi generali del Diritto internazionale, e considerare quindi lo sciopero quale articolazione connaturale al diritto fondamentale al lavoro. E’ appena il caso di sottolineare che l’esercizio di questo diritto deve avvenire nel rispetto di tutti gli altri diritti fondamentali, in uno spirito di alta responsabilità sociale.

Se ne dicono tante sui sindacati. Certamente, essi devono essere guidati da persone che abbiano nella mente e nel cuore i diritti dei lavoratori, e che non  vengano a compromesso con istanze vetero-corporative. Si possono e si devono criticare quelle dirigenze sindacali che si sono burocratizzate o, più o meno palesemente, partiticizzate. Ma chiediamoci: se non ci fossero stati i sindacati, sarebbe stato possibile avviare la ‘civiltà del lavoro’? E se non ci fossero oggi, sarebbe possibile riprendere quel cammino?
Riflessione finale, forse troppo ovvia. L’Articolo 1 della Costituzione Italiana proclama che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. E se il lavoro non c’è? Senza fondamento(a) la Repubblica crolla. E se al posto del lavoro si mette il precariato o la flexicurity, quanto ne guadagna la statica della Repubblica?”

  • Fondata sul lavoro.  La solitudine dell’articolo 1 di Gustavo Zagrebelsky, Einaudi Editore. Tratto dalla Lectio Magistralis del 2 febbraio 2013 condotta dall’autore a commento del proprio lavoro (Torino Palazzo Carignano)

[…] Si dice che l’attività economica si è oggi spostata dalla cosiddetta “economia reale” alla “economia fittizia”, l’economia finanziaria. Questa seconda, in una specie di sortilegio, mira a produrre denaro dal denaro, attraverso transazioni finanziarie, più o meno spericolate, più o meno lecite, che producono però quelle che si chiamano “bolle speculative”, scoppiate o in attesa di scoppiare in giro per il mondo.

Ora, l’economia reale può produrre lavoro e stabilità sociale; quella fittizia, no. Sottrae risorse al mondo del lavoro, produce instabilità sociale e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch’essi travolti, e noi con loro, da un sistema privo di fondamento. Essa dirotta le risorse finanziarie là dove conviene, al fine di riprodurre e ingigantire se stessa e i suoi attori, attori che non sono né i lavoratori né gli imprenditori. Questa finanza “mangia” l’economia reale, l’indebolisce, è nemica del lavoro. Perfino nelle difficoltà dell’economia reale s’avvantaggia. Le crisi finanziarie che s’abbattono sui conti degli Stati non sono eventi della natura, come tsunami o alluvioni. Sono prodotte dagli interessi finanziari medesimi e sono certificate da agenzie indipendenti solo in apparenza, in un colossale conflitto (o, sarebbe meglio dire, in una colossale connivenza) d’interessi.  Che cosa ha prodotto, del resto, il “risanamento finanziario” che il mondo finanziario internazionale chiede agli stati, come condizione dei loro investimenti? Chiede “riforme”. E queste riforme a che cosa hanno portato? Finora, a contrazione dell’economia reale, a crisi delle imprese, a diminuzione dei posti di lavoro, al peggioramento delle condizioni dei lavoratori, a emarginazione del lavoro femminile, a riduzione delle protezioni sociali. Sono conseguenze congiunturali, come pensa chi crede che al “risanamento” seguirà una seconda fase di sviluppo, oppure sono conseguenze strutturali d’una economia controllata da una finanza finalizzata a se stessa?

Bisogna dire con chiarezza: la finanza come mezzo e come fine, e non come mezzo finalizzato all’economia reale, è nemica della Costituzione, oltre che nemica dei popoli su cui si abbatte la sua speculazione. La speculazione finanziaria è interessata non a costruire stabilmente, ma a sfruttare l’instabilità che, per chi si muove sul mercato globale, è un’opportunità (salve le rovine che lascia dietro di sé). La finanza che genera lavoro s’è trasformata in finanza che lo distrugge.

.. All’inizio di questa esposizione, s’è detto dell’algoritmo che la tutela costituzionale del lavoro dovrebbe implicare: dal lavoro, le politiche del lavoro; dalle politiche, l’economia. Il posto centrale è occupato dalle politiche. Oggi, assistiamo all’impotenza della politica, per quanto riguarda il capovolgimento n. 1. Nel mercato globale, si constatano due “scollamenti”, uno dimensionale e l’altro temporale: dimensionale, perché le politiche degli Stati non coincidono con i fenomeni globali della concorrenza; temporale, perché alla velocità delle delocalizzazioni delle unità produttive corrisponde la perdita di capacità contrattuale dei lavoratori, evidentemente non altrettanto facilmente “delocalizzabili”, come se fossero macchine e materia bruta. La politica subisce, non governa. La Costituzione aveva previsto il rischio e per questo ha detto: “La Repubblica promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro” (art. 35).

… di fronte alla pervasiva forza, legale e illegale, della finanza, la politica si dimostra troppo spesso succuba, connivente o collusa. Chi sa resistere alla forza del danaro, che corrompe o, almeno, debilita le forze che dovrebbero regolarla?

Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversi porre: l’effettività, cioè i rovesciamenti costituzionali di cui s’è detto, sono solo eventualità che possono correggersi, governare, contrastare? Oppure sono necessità che possono solo essere assecondate, perché ogni resistenza sarebbe vana? Siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale? Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d’una politica costituzionale del lavoro. Chi deve parlare, e agire di conseguenza, sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la risposta.

…Ora, in fine, un’osservazione, per così dire, da umanista, da “uomo del sottosuolo”. Di fronte ai disastri sociali della finanza speculativa, occorre ritornare alla “economia reale”, cioè alla produzione di ricchezza per mezzo non di ricchezza, ma di lavoro e di ricchezza investita sul lavoro. I “piani per il lavoro” di cui si discute in questi giorni significano questo. La parola d’ordine è “crescita”. Per aversi crescita occorre stimolare i consumi, affinché i consumi, a loro volta, diano la spinta alla produzione e, dalla produzione, nasca lavoro cioè reddito che, a sua volta, alimenta i consumi: una ruota che deve girare. Quando la ruota gira bene oliata, ciascuno di noi è una particella in funzione della ruota, cioè siamo produttori e consumatori. Tanto più consumiamo, tanto più lavoriamo e tanto meglio svolgiamo la nostra parte. Naturalmente, non è detto che tutti lavorino e consumino come gli altri. Ci sarà chi può lavorare di meno e consumare di più, e chi deve consumare di meno e lavorare di più. Dipende dai rapporti sociali, cioè dalla distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi, cioè dai criteri di giustizia vigenti. In ogni caso, c’è qualcosa di sinistro in questa raffigurazione: l’essere umano che lavora per poter consumare e consuma per poter lavorare. Sembra la trama di una qualche raffigurazione mitologica d’una tragica spirale che deve girare sempre e, possibilmente, sempre più veloce, per funzionare a dovere.

Tuttavia, non è detto che si debba lavorare sempre nello stesso modo e consumare sempre le stesse cose. Su questo, almeno, la storia dice che le cose possono cambiare, che c’è una certa libertà di autodeterminazione. In effetti, ogni periodo di crisi d’un sistema economico ha avuto sbocco in qualche cosa di nuovo, e il nuovo è sempre cresciuto spontaneamente dal suo seno. Dall’economia di potenza, schiavistica e latifondistica dell’impero romano, si è sviluppata l’economia curtense alto-medievale, basata sull’autoconsumo di piccole unità economiche. Dall’eccedenza produttiva di queste, si è sviluppata l’economia mercantile e finanziaria delle signorie rinascimentali; da queste, il latifondo feudale; da questo, la fisiocrazia e le grandi manifatture pubbliche al servizio dello Stato assoluto; da ciò, l’economia capitalista, dapprima in dimensioni nazionali. Da qui, il gigantismo delle imprese multinazionali che ha generato ingenti concentrazioni di capitali, orientati infine alla finanza speculativa, ignara d’ogni responsabilità e generatrice d’instabilità sociale. Anche il fatto che si sia qui riuniti a discutere di queste cose, con il senso dell’urgenza che tutti avvertiamo, è la riprova che siamo ora dentro a una crisi di questo sistema.

Qui viene l’osservazione “umanistica”. L’economia mondializzata, omologata agli standard produttivi delle grandi imprese che operano sul mercato mondiale, la grande distribuzione al loro servizio, la pubblicità che orienta i consumi standardizzandoli e crea stili di vita uniformi: tutto ciò produce un’umanità funzionalizzata, ugualizzata nei medesimi bisogni e nelle medesime aspirazioni: in una parola, confluisce in una medesima cultura. Ciò significa elevare il conformismo a virtù civile. E’ questo ciò che vogliamo? O non occorrerebbe invece prestare attenzione a ciò che di originale, sotto la calotta in crisi dell’economia finanziarizzata su scala mondiale, si muove e cerca di crescere: nuove e antiche professioni, che cercano di emergere o riemergere, nuove forme di produzione, di collaborazione tra produttori, nuove reti di collegamento solidale tra produttori, nuove modalità di distribuzione e di consumo; riscoperta di risorse e patrimoni materiali e culturali esistenti, ma finora nascosti o dimenticati. Il nostro Paese avrebbe tante cose e tante energie da portare alla luce nell’interesse di tutti, cioè nell’interesse del “progresso materiale e spirituale della società”, come recita l’art. 4 della Costituzione. Nelle società libere, la politica non ha mai inventato o imposto nulla di completamente nuovo. Il suo compito è capire, orientare e aiutare ciò che di fecondo cresce e, parallelamente, opporsi a ciò che cerca di riproporsi, secondo esperienze che hanno già fatto il loro tempo.

Su questo terreno, mi pare che debba cercarsi la risposta a quella che, altrimenti, sarebbe solo una stucchevole controversia: la risposta alla domanda che cosa, oggi, voglia dire essere conservatori o innovatori.

  • Ken Loach a Cannes: Ribellatevi alla politica che soffoca i più deboli di Cristina Battocletti, pubblicato su Il Sole 24 Ore (13 Maggio 2016)

E’ un appello alla rivolta contro una società che soffoca i più deboli quello che lancia Ken Loach dalla 69esima edizione del festival di Cannes, dove ha presentato in concorso il suo nuovo film “I, Daniel Blake”. La pellicola racconta la storia di una falegname inglese, Daniel (Dave Jones), che si trova senza lavoro dopo aver avuto un attacco di cuore e probabilmente senza pensione perché un sistema burocratico crudelissimo gli impedisce di compilare correttamente la domanda. In condizioni simili si trova Katie (Hayley Squires), ragazza madre di due bambini, con cui Daniel stringe un legame di solidarietà. Un racconto con forti punte di ironia ma più amaro del solito.

Accompagnato dal sodale sceneggiatore Paul Laverty e dai suoi attori, Loach viene accolto in conferenza stampa con un lungo applauso. “La situazione è scioccante non solo nel nostro Paese ma in tutta Europa. Tra l’Europa e stare divisi scelgo l’Europa che è il male minore. Altrimenti le destre di ciascun paese ne approfitteranno per effettuare una deregulation selvaggia del mondo del lavoro e per distruggere l’ambiente. E’ necessario che le sinistre d’Europa si uniscano per tutelare i più deboli”.

Laverty e Loach hanno girato il Paese sentendo decine di storie. “Vi spezzerebbero il cuore – spiega Loach-. Per questo abbiamo scelto di raccontare il percorso di due individui intelligenti, sicuri, con un mondo amicale solido. Semplici e chiari senza eccessi, perché il messaggio è già forte. Dovevano agire senza movimenti estremi, descrivere la situazione con economia e semplicità”, spiega il regista.

Nel film Daniel aiuta Katie a riparare una casa popolare che finalmente la ragazza ha ottenuto dopo anni di attesa e la accompagna poi al banco alimentare che aiuta gli indigenti fornendoli gratuitamente di generi di prima necessità. “Ci sono decine di migliaia di persone depresse perché hanno perso il lavoro e versano in condizioni di povertà assoluta. Il suicidio per molti si prospetta come unica soluzione, in una condizione di frustrazione, dolore, disperazione. I disoccupati pensano di aver perso il lavoro per loro colpa, e questo è quello che ti fanno credere, ma non è vero”. E per rafforzare il suo pensiero cita Bertold Brecht, con l’intento non di muovere alla commozione ma di muovere alla ribellione.

  • Film consigliato (oltre al precedente in uscita a fine 2016): Pride di Matthew Warchus (Gran Bretagna 2014)

Londra, 1984. Joe partecipa tra mille timidezze e ritrosie al Gay Pride e si unisce alla frangia più politicizzata del corteo, già proiettata sulla successiva battaglia in difesa dei minatori in sciopero contro i tagli della Thatcher. Guidati dal giovane Mark, i LGSM (Lesbians and Gays Support The Miners) cominciano il loro difficile percorso di protesta, che li conduce in Galles, nella remota comunità di Dulais. Superata l’iniziale ritrosia, tra attivisti gay e minatori nascerà una sincera amicizia e un’incrollabile solidarietà umana.
Uno spunto narrativo dal potenziale micidiale che ha sorprendentemente atteso trent’anni prima di essere trasposto su grande schermo. Matthew Warchus – il sottovalutato Simpatico e un notevole curriculum teatrale alle spalle – raccoglie la sfida, forzando la verità storica (la solidarietà era molto più articolata e diversificata, non coinvolgeva solo una comunità gallese e un gruppo di attivsti londinese) quel tanto che basta per rendere Pride un possibile campione d’incassi. Di quelli destinati in egual misura a essere amati e detestati, per la capacità di concentrare cliché e situazioni già viste in anni di cinema popolare britannico, con in mente solo il grande pubblico privo di pretese intellettuali.
Chi ha adorato i balletti di Full Monty, il sogno di Billy Elliot e le tragicomiche vicende di Trainspotting si ritroverà tra mura amiche, dove il cinico e smaliziato cinefilo difficilmente arriverà ai titoli di coda di Pride. Warchus rinuncia da subito allo stupore, sceglie l’alveo confortevole del genere codificato e lo sfrutta al massimo, puntando su un cast adeguatamente variegato (il Dominic West di The Wire a fianco di un sorprendente Paddy Considine) e giocando la propria vis comica, così come i climax drammatici, sull’accettazione della “diversità”, sia essa abitudine sessuale, estrazione proletaria o semplice provenienza gallese.
Una sceneggiatura accorta, che inserisce quasi subito il pilota automatico e pigia i tasti emozionalmente giusti, senza concedersi sorprese: i traumi, i punti di svolta del plot, sono quelli ampiamente previsti. La diffidenza iniziale degli operai si tramuta in accoglienza gioiosa, specie quando i gay rivelano la loro naturale attitudine al ballo (cliché quasi imperdonabile, di cui Warchus si nutre abbondantemente), e i percorsi individuali dei protagonisti seguono il loro iter naturale, con l’immancabile figlio che trova il coraggio di fare coming out con i propri genitori e pagarne le conseguenze. Minimo lo spazio dedicato alla contestualizzazione storica nell’era Thatcher – l’inizio della fine per il Secondario e per la classe operaia – benché lo spettro dell’Aids incomba come un inquietante monito contro la libertà dei costumi sessuali.
Astutamente tenuta in secondo piano la disfatta dei minatori, in favore di una marcia comune in occasione del gay pride che sa di utopia rivoluzionaria consolatoria almeno quanto l’epilogo recente de I miserabili.

  • Lavoro, Costituzione e Resistenza di Domenico Tambasco, pubblicato su Micromega

C’è un filo sottile che collega Lavoro, Costituzione e Resistenza. Un filo creato 70 anni fa dalla lotta di resistenza e tessuto dai padri costituenti. Un filo reciso, tuttavia, negli ultimi trent’anni di sfrenato neoliberismo. Ma è proprio il concetto di Resistenza che ci propone una nuova via, radicalmente alternativa alla “grande trasformazione”. Resistere, infine, significa anche “stare con Erri”. 

C’è un filo sottile che lega, in modo stretto e a tratti invisibile, Lavoro Costituzione e Resistenza; nei giorni della celebrazione dei 70 anni dalla liberazione del Paese dal giogo fascista attraverso l’impegno e il sacrificio resistenziale, è d’obbligo esaminare e svelare quei nessi che, tra le attuali rovine socio-economiche, ben potrebbero rappresentare un modello di progettazione e di ricostruzione di un “mondo nuovo”, in antitesi al pensiero unico dominante.

Una diversa via d’uscita c’è, in contrasto rispetto al grido neoliberista “there is no alternative”: seguiamola.
Il cammino segue subito il dipanarsi del filo nell’articolo di apertura della Costituzione, che espone l’equazione fondativa del sistema repubblicano: quella tra democrazia e lavoro, secondo cui “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Per comprendere appieno il senso dell’equazione democrazia/lavoro (che sembra apparentemente far leva su un elemento – qual è il lavoro – più prosaico rispetto, ad esempio, al valore della dignità o alla triade rivoluzionaria libertà-eguaglianza-fraternità) è necessario porre lo sguardo ai volti e alle storie dei Costituenti: persone concrete, pragmatiche, profondamente segnate dai drammatici decenni della devastante crisi economica e sociale del ’29, dalla dittatura fascista, dalla durezza del confino e dell’esilio, dall’abominio dei campi di concentramento e di “lavoro”. Persone che sanno, proprio in ragione di un plumbeo passato, di che lacrime e sangue sia fatta la vita quotidiana e, soprattutto, di quanto vano sia parlare di diritti fondamentali, se in concreto non sia stata prima garantita la precondizione materiale per l’esercizio degli stessi. I diritti, infatti, sono tali solo se effettivi, solo se viventi e pulsanti nel sudore e nelle lacrime della realtà, pena il ridursi ad un mero flatus vocis, ad un’elegante ma inutile scrittura a caratteri d’oro sulla carta: è l’emancipazione dal bisogno, la liberazione della persona dalla schiavitù della necessità materiale a rendere davvero effettive le condizioni per lo sviluppo della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà.

Il lavoro, dunque, è lo strumento principale, fondamentale e fondativo del progetto di emancipazione collettiva che i costituenti pongono nell’epigrafe della Costituzione: è, per riprendere le parole dell’altro cruciale snodo costituzionale – ovvero l’art. 3, 2° comma – il primario mezzo per consentire di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ecco il primo membro dell’equazione democrazia/lavoro: la democrazia è tale solo se i diritti fondamentali vengano effettivamente tutelati e, dunque, solo e soltanto se a tutti sia garantito il lavoro, primo mezzo di affrancamento individuale e sociale.

In un’equazione biunivoca, ovviamente, deve essere valida anche la relazione inversa ovvero, nel caso di specie, che non può darsi lavoro laddove non sia garantita anche la democrazia; più precisamente, non tutte le attività lavorative sono tali per la Costituzione ma, alla luce dell’assioma dell’art. 1, sono ammissibili – in una società costituzionale e democratica – solo e soltanto quella attività che si conformino al parametro democratico disegnato dalla Costituzione: possiamo ben dire che, nella tessitura costituzionale, emerge nitido il disegno del lavoro costituzionale democratico. Esaminiamone i profili.

In primo luogo, il lavoro democratico delineato dai padri costituenti è il lavoro legato al diritto ad una retribuzione decorosa, degna e giusta, così come prescritto dall’art. 36 Cost., secondo cui “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il salario, per riprendere un tema di discussione di alcuni decenni orsono, è per una parte preponderante del suo contenuto una variabile indipendente rispetto ad ogni altro indice economico, aspetto ben rappresentato dall’espressione “in ogni caso” che manifesta la non negoziabilità e l’inderogabilità della quota di salario necessaria a garantire la libertà e la dignità personale e familiare, espressione del diritto ad un’esistenza libera e dignitosa.

In questo quadro, dunque, non rientrano quelle forme sempre più diffuse di “lavoro gratuito” (si pensi alle migliaia di volontari fittizi assunti per Expo 2015) o di “lavoro povero”, ossimoro quest’ultimo che comunemente sta ad indicare le innumerevoli attività lavorative flessibili (part-time involontario, lavoratori a progetto, contratti a termine, contratti di apprendistato, lavoro a chiamata e simili) retribuite con una “paga da fame”, per mutuare il titolo di una inchiesta giornalistica che a suo tempo fece scalpore; salari che, spesso, non riescono a mantenere le persone sopra la soglia della povertà ma che, al contrario, contribuiscono a cristallizzare i lavoratori nelle varie trappole della povertà o della precarietà, simbolo di un sistema sociale ormai stratificato in “caste” non comunicanti ed in cui l’unica mobilità possibile è quella dall’alto verso il basso.

Né, del resto, possono considerarsi conformi alla coordinate costituzionali neanche quelle attività le cui retribuzioni siano sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato: ci riferiamo, in particolare, agli stipendi dei molti top manager e di coloro che sono impegnati nella finanza speculativa, i cui lauti compensi (spesso ulteriormente arricchiti da generose stock option, da bonus, da buonuscite milionarie anche in presenza di gestioni fallimentari) sono passati da un rapporto di 40 a 1 ad un rapporto di 400 a 1 rispetto ai livelli salariali medi. Il diritto ad una retribuzione giusta, dunque, si traduce anche in un’equa e proporzionata distribuzione delle risorse.

Il secondo elemento del lavoro democratico reperibile all’interno delle coordinate costituzionali è il diritto ad un lavoro che sia espressione del proprio daimon ed al contempo realizzazione personale ed accrescimento del proprio patrimonio di professionalità: l’art. 35, 2° comma della Costituzione, che prescrive il cogente obbligo di cura della formazione e dell’elevazione professionale dei lavoratori, ne è la più chiara ed evidente espressione, concretata a livello legislativo dall’art. 2103 c.c. (così come modificato dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori) che tutela il patrimonio di professionalità individuale da illegittimi ed arbitrari demansionamenti.

Fuori da queste coordinate, dunque, è il lavoro precario, forma estrema e patologica di flessibilità lavorativa, che involgendo il lavoratore in una successione interminabile di mansioni segmentate, sempre diverse ed eterogenee, spesso poco qualificate, frammenta l’identità e la qualificazione della persona in un collage di “occupazioni” prive di senso, di scopo e di prospettiva e, soprattutto, prive di valore professionale: dalla carriera, lento cammino di accrescimento professionale, al job, insieme spezzettato di lavori incoerenti. Così come, analogamente, si può considerare contrastante rispetto al modello del lavoro costituzionalmente democratico anche il lavoro demansionato, ultima forma di flessibilità che a breve sarà introdotta nel nostro ordinamento, quale sacrificio estremo consumato sull’altare delle esigenze tecnico-organizzative aziendali: le leggi di mercato s’impongono sulle leggi fondamentali.

Abbiamo dunque finora incontrato, nel nostro cammino alla ricerca dei fili che legano lavoro, Costituzione e Resistenza, il duplice contenuto individuale del lavoro democratico-costituzionale, che si lega alla persona esprimendone la natura giuridica di pretesa ad una retribuzione equa e di diritto ad un lavoro qualificante. Natura che ben può sintetizzarsi e sublimarsi nel valore della dignità, riconosciuta e tutelata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in sede di apertura, con la solenne dichiarazione per cui “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.

Ma vi è un ulteriore contenuto, che ha natura deontica, di dovere, e che deriva direttamente dal precetto dell’art. 4, 2° comma della Costituzione, che individua nel lavoro anche il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Il lavoro, nella prospettiva della società democratica delineata dai costituenti, è tale solo se non si esaurisce alla mera sfera individuale, ma si espande anche alla società, assumendo in sé un fine ed uno scopo sociale, sia esso di incremento della ricchezza materiale sia esso di accrescimento del progresso spirituale della comunità umana. L’attività lavorativa, dunque, è anche un dovere che lega e salda la persona alla società, vincolandola ad uno scopo utile per il progresso collettivo: emerge chiaramente, sotto tale angolo visuale, la natura relazionale e sociale del lavoro, che si sostanzia nel valore della solidarietà e nella correlativa eclissi della “neutralità morale del lavoro”.Solidarietà che, a sua volta, dà il titolo al capo IV della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea in cui viene garantita la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30) e, soprattutto, viene stabilito il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 31), nonché il diritto alla sicurezza e all’ assistenza sociale (art. 34): sono continui, come abbiamo visto anche in precedenza, i richiami e i rimandi tra la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali Ue, vera e propria “costituzione europea”.

Sotto tale prospettiva, pertanto, non possono considerarsi lavori – ad esempio – quelle attività della finanza speculativa che si risolvono unicamente nell’arte di far soldi a danno degli altri, come ben dimostrano i numerosi “crac” dell’ultimo decennio, da Parmalat a Lehman Brothers, e che hanno dato vita al sistema socio-economico del finanzcapitalismo, punta estrema del neoliberismo imperante negli ultimi trent’anni.

Ed il mercato autoregolato con le sue naturali ed ineluttabili leggi della domanda e dell’offerta, dove si colloca nella prospettiva costituzionale? Sullo sfondo e comunque in una posizione subordinata rispetto al lavoro.
Se, infatti, all’iniziativa economica privata (essenza del mercato) è riconosciuta la libertà (art. 41 comma 1° Cost.), al contempo essa deve esplicarsi in un preciso alveo, costituito dal rispetto dell’ “utilità sociale” e dalla tutela della “sicurezza”, della “libertà” e della “dignità umana” (art. 41 comma 2° Cost.). Il che significa dire che, ove l’iniziativa economica leda l’essenza individuale (dignità) o sociale (solidarietà) del lavoro, nel contrasto deve sempre prevalere il lavoro, cardine della democrazia.

Non si dà democrazia se non è garantito il lavoro; non si può parlare di lavoro se questo non è democratico, nei termini che abbiamo poc’anzi esaminato: questo è il fulcro ed al contempo l’equazione fondativa della Repubblica Italiana; questa è, di più ed oltre, l’unità di misura ed il parametro che ci consente di valutare la conformità o meno al progetto dei costituenti dell’attuale sistema del lavoro, così come si è venuto stratificando negli ultimi “trent’anni ingloriosi”.

Proprio nell’esaminare lo stato contemporaneo del lavoro, è opportuno considerare come esso sia l’esito ed il frutto di una sedimentazione progressiva di provvedimenti, leggi e accordi collettivi volti a deregolamentare il “mercato del lavoro” seguendo il dogma della eliminazione delle rigidità attraverso una continua “flessibilizzazione”: è la mercificazione del lavoro, diventato merce tra le merci, sciolto dai lacci della legislazione vincolistica dei primi trent’anni “gloriosi”, variabile dipendente dalle altre forze economiche e di mercato, bene sempre plasmabile a misura delle esigenze tecnico-produttive aziendali: dal lavoro solido o rigido dei decenni ‘50/’70 si è passati al lavoro liquido degli anni ‘80/2000 fino ad arrivare alla sua liquefazione attuata, con fredda e lucida determinazione, negli ultimi interventi del 2012 (la cosiddetta Legge Fornero) e del 2014-2015 (il cosiddetto Jobs Act).

Basteranno solo dei brevi cenni, avendo già in altre sedi esaminato criticamente gli ultimi interventi normativi.
Gli atti del 2012 e del 2014-2015 si assomigliano per la parziale coincidenza dell’area di intervento: entrambi, infatti, “liberalizzano” rispetto al periodo precedente sia i contratti a termine sia i contratti standard a tempo indeterminato ricadenti nella tutela “forte” dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Da un lato, se la Legge Fornero apre una breccia nell’obbligo di causalità del termine contrattuale, introducendo soltanto per la prima assunzione la possibilità di stipulare un contratto a scadenza senza l’indicazione delle causali (ovverosia senza l’indicazione delle ragioni organizzative o tecnico/produttive alla base dell’assunzione temporanea), dall’altro il Jobs Act, con il “decreto Poletti” del 2014, porta a termine la “deregulation” ammettendo l’indiscriminata assunzione “a scadenza” dei lavoratori senza l’indicazione di alcuna ragione, anche per i contratti successivi al primo. Allo stesso modo, se la legge Fornero introduce nell’area della cosiddetta “tutela reale” una prima rilevante deroga, eliminando di fatto la reintegra per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e sostituendola con un’indennizzo monetario (di norma compreso tra le 12 e le 24 mensilità), il Jobs Act invece (con il “contratto a tutele crescenti”) giunge all’ultimo stadio della deregolamentazione, disponendo la pressoché totale abolizione della reintegra per i nuovi assunti, sostituita da indennizzi monetari esigui e crescenti sulla base della sola anzianità lavorativa.

Un cammino coerente quello del legislatore nazionale degli ultimi anni, almeno rispetto alla famosa lettera del 5 agosto 2011 con cui l’allora Presidente della Banca Centrale Europea Trichet e il suo successore designato Mario Draghi -a quei tempi ancora governatore della Banca d’Italia- inviarono al governo in carica e al paese le linee di un programma di governo di emergenza da seguire perentoriamente, al fine di sviluppare e concludere tutte le riforme economiche liberiste avviate da tempo, anche e soprattutto in materia di mercato del lavoro.

Con il Jobs Act, tuttavia, si è andato oltre e, come è stato acutamente osservato, si è “voluto stravincere”, tanto da andare ad incidere sullo svolgimento del rapporto di lavoro, attraverso la legittimazione dei demansionamenti unilaterali giustificati dalla “modifica degli assetti organizzativi aziendali” e l’apertura all’utilizzo di più ampi strumenti e poteri di videosorveglianza.

Tuttavia, è l’analisi delle concrete conseguenze delle “riforme” del lavoro che lascia attoniti e senza parole. La costruzione, infatti, di meccanismi contrattuali che consentono alla parte datoriale un’agevole chiusura del rapporto di lavoro in qualsiasi momento (vuoi per la scadenza del termine apposto al contratto vuoi per la possibilità di irrogare anche arbitrariamente un licenziamento, con la sola conseguenza di una sanzione economica di modesta entità), comporta la naturale perdita di potere contrattuale a scapito dei lavoratori, che non hanno conseguentemente più nessun valido strumento né per resistere ad eventuali condotte illegittime né per fondare le proprie rivendicazioni salariali o lavorative. Dall’altro, l’ignobile attacco al principio di irriducibilità del patrimonio professionale del lavoratore che ha legalizzato – a tutti gli effetti – i demansionamenti lavorativi (che ricordiamo essere la prima stazione nella via crucis del mobbing), ha colpito al cuore il valore costituzionale della dignità professionale. Da qui al lavoro povero di salario, di professionalità e di diritti il passo è breve: siamo giunti, in poche mosse, agli estremi confini del lavoro servile.

Facciamo un passo indietro, e raffrontiamo l’odierno punto di arrivo con il punto di partenza fissato dai padri costituenti: il confronto è drammatico. Siamo passati dal lavoro quale diritto ad una retribuzione equa e degna al lavoro povero o addirittura gratuito, dal lavoro quale diritto alla realizzazione personale al lavoro demansionato e precario, dal lavoro sociale al lavoro antisociale, quest’ultimo espressione della speculazione finanzcapitalistica. Stiamo parlando, dunque, dell’ormai avvenuta trasformazione dal lavoro democratico al lavoro servile, e del correlativo scardinamento dell’art. 1 della Costituzione.

Questo mutamento, peraltro, reca con sé una più ampia, “grande trasformazione”, che coinvolge l’intero assetto democratico: come abbiamo visto, democrazia e lavoro si tengono insieme e, dunque, simul stabunt simul cadent. Se il lavoro costituzionale è quindi manifestazione della democrazia, il lavoro servile non può non essere la massima espressione dell’oligarchia, oggi comunemente definita “società dell’1%”. L’ultima svolta del nostro cammino ci presenta, dunque, i profili attuali della società oligarchica, in cui la rendita ed il privilegio sono gli architravi di un sistema governato dai pochi (oligoi), in cui la disuguaglianza è l’humus comune della società, in cui la concentrazione del potere economico e politico sono i pilastri dell’edificio sociale: in questa architettura, il lavoro ed il suo sostrato umano occupano il sottoscala delle merci.

Siamo di fronte alla stessa situazione di circa un secolo fa, che venne così stigmatizzata da un autorevole studioso nella sua più importante opera: “La presunta merce forza-lavoro non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale uomo che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti della stessa società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione. La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente ed il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime, distrutta……”.

Possiamo rassegnarci ad una simile conclusione?
Certamente no, ed è proprio il concetto di Resistenza che, unito ai solenni principi della Costituzione, ci prospetta una via d’uscita.

Resistenza sta ad indicare, infatti, non solo il fatto storico, concretatosi nell’eroica lotta di liberazione contro il dominio nazi-fascista, ma anche uno specifico diritto, il diritto – appunto – di resistenza. Diritto già presente nella dichiarazione rivoluzionaria francese del 1789 (che all’art. 16 dichiarava non aver Costituzione la società in cui non fosse garantita la tutela dei diritti e la separazione dei poteri), positivizzato nella costituzione tedesca (il cui art. 20.4 stabilisce che “Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non è possibile alcun altro rimedio”), qualificato come “ultima istanza” nel Preambolo della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 e discusso anche nei lavori dell’Assemblea Costituente italiana da Giuseppe Dossetti, il quale propose un articolo che così recitava: “ La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”.

Anche se di questo progetto di articolo non è rimasto nulla nella stesura definitiva, ben possiamo ritenere il diritto-dovere di resistenza implicitamente ricompreso nel corpo dell’art. 54, 1° comma Cost., che nello statuire il dovere di tutti i cittadini “di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”, a fortiori non può non ammettere la civile resistenza dei cittadini stessi nel caso in cui la Repubblica, la Costituzione e le leggi (conformi alla costituzione) siano posti in grave pericolo.

Dinanzi a questo panorama, dunque, emerge naturale la spinta e lo stimolo ad emulare ciò che, 70 anni orsono, fecero i partigiani i quali, scendendo dalle solitudini delle loro montagne, combatterono eroicamente per riconquistare ciò che, dopo oltre vent’anni di dittatura, era stato totalmente perduto. Allo stesso modo noi oggi, dunque, scendendo dalle montagne delle solitudini estreme in cui ci hanno relegato trent’anni di finanzcapitalismo, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di resistere, unendoci in un “contromovimento sociale” che ponga fine alla rozza finzione del neoliberismo: quella rozza finzione che ha portato alla mercificazione di ogni aspetto della vita, dal lavoro alla politica, dall’economia ai sentimenti.

Movimento pacifico, legalitario, di una legalità tutta costituzionale, che si avvale di uno strumento fondamentale, la “libertà di parola contraria”, ed ha un unico scopo: restituire a noi e alle future generazioni quella democrazia che, lentamente e di nascosto, ci è stata sottratta in questi ultimi trent’anni di delirio neoliberista.
Dimenticavo: anche chi scrive sta con Erri.

Questo articolo è tratto, con alcune correzioni ed ampliamenti e con il corredo di note bibliografiche, dalla relazione tenuta il 13 aprile 2015 presso l’aula Consiliare del Comune di Cormano nell’ambito dell’iniziativa “Costituzione e Resistenza. Art. 1 e non solo: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, con la partecipazione di Giorgio Cremaschi e Guglielmo Giumelli.

  • Articolo 4 della Costituzione Italiana. Da impariamolacostituzione.wordpress.com

L’articolo 4 della nostra Costituzione riprende, ampliandolo, quello che l’articolo 1 sancisce essere il fondamento della nostra Repubblica. Assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e dovere, intesi non in senso  strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine cui lo Stato deve tendere ed un dovere morale cui ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come  uno dei principi fondanti della Repubblica, rimanda alla funzione che il lavoro svolge nella società, come mezzo di produzione di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, non come mero fattore di produzione,  ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali, e quindi della società tutta.

Con il riconoscimento della possibilità e della responsabilità di realizzare nel lavoro la propria personalità e, quindi, anche il proprio progetto di vita, la Costituzione fonda una società in cui ad ogni individuo è consentito un progetto individuale, indipendentemente dalle diverse situazioni di partenza. Questo principio completa e arricchisce i due pilastri della nostra carta fondamentale: il principio personalista (art. 2) e quello di eguaglianza, non solo nel suo aspetto formale, ma anche sostanziale (art. 3).

Il lavoro è inteso nel senso più ampio, in modo da ricomprendere l’iniziativa economica privata e quella del lavoro subordinato attribuendo statuti differenti, nella parte che la carta fondamentale dedica al lavoro.

La strada per la concretizzazione di questo articolo sul piano legislativo è stata lunga e faticosa, sempre soggetta a possibili battute d’arresto.

Lo statuto dei Lavoratori, approvato negli anni ’70, fece propri i principi dell’articolo 1 e dell’articolo 4, a partire dalla libertà di opinione del lavoratore che non può diventare fonte di discriminazione (art. 1) per comprendere poi alcune disposizioni atte a tutelare il subordinato rispetto alla posizione dominante del datore di lavoro: per quanto riguarda le misure di sorveglianza, di licenziamento, sanzioni disciplinari etc.

A seguito di alcuni cambiamenti interni al mondo del lavoro, si è cercato di adattare il diritto del lavoro alle nuove sfide della contemporaneità riducendo alcune rigidità ed introducendo forme di flessibilità. La riforma del mercato del lavoro del 2003, la così detta Riforma Biagi ha apportato dei cambiamenti che avrebbero dovuto portare ad una maggiore flessibilità ma a cui il nostro paese non era pronto, né economicamente, né culturalmente.

Questo ha comportato il passaggio da una stagione dei diritti del lavoratore come quella degli anni anni settanta, in cui vennero tradotti a livello legislativo i principi costituzionali, alla stagione della precarizzazione del lavoro e dell’individuo, e quindi della società. Non possiamo che essere unanimi con la nostra Costituzione, ritenendo che istituti,  come quello della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato,  da parte di agenzie di lavoro interinale,  sia uno svilimento di quel mezzo di realizzazione umana che riconosce l’articolo 4.

I cambiamenti apportati non sembrano adeguati tutt’oggi per un mondo del lavoro ancora in evoluzione, ma soprattutto per la tutela piena del lavoratore.

Un altro aspetto del mondo del lavoro che oggi risulta non rispettare i principi costituzionali è la differenza di trattamento che le donne ricevono, spesso anche in termini di salario. Lo stato ha previsto alcune forme di tutela, che risultano non adeguate a colmare il divario tra uomo e donna.

  • Lavoro. Diritto costituzionale da Enciclopedia Treccani

Alla persona che presta il lavoro la Repubblica italiana riconosce e garantisce diritti inviolabili, anche e soprattutto nella dimensione lavorativa (art. 2 Cost.). Il lavoro è considerato valore fondativo della Repubblica (art. 1 Cost.), nonchéstatus attraverso il quale si realizza la partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, co. 2 Cost.). La carta costituzionale riconosce inoltre nel lavoro un «diritto», da un lato, e un «dovere», dall’altro; la Repubblica si impegna, infatti, a promuovere le condizioni di effettività del «diritto al lavoro», che riconosce a tutti i cittadini (art. 4, co. 1, Cost.), ma al contempo, cristallizza il lavoro come un «dovere», di scegliere e svolgere un’attività o una funzione, concorrendo così al progresso materiale e spirituale della società secondo le proprie possibilità (art. 4, 2° co., Cost.). La Costituzione contiene altresì un gruppo di norme dei rapporti economici, collocate nel titolo III, concernenti la disciplina di interessi ed esigenze dei lavoratori ritenuti di particolare rilevanza. L’art. 35 attribuisce alla Repubblica il compito di tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, di curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, di promuovere gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. L’art. 36 stabilisce una norma di importanza fondamentale nella disciplina lavoristica in genere, fissando i principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, e riconosce altresì al lavoratore il diritto irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite. L’art. 37 accorda alle lavoratrici gli stessi diritti dei lavoratori dell’altro sesso – sottolineando anche l’esigenza di far sì che possano attendere alle funzioni famigliari, di mogli e di madri – e rinvia alla legge la fissazione dell’età minima per il lavoro salariato, nonché il compito di tutelare «il lavoro dei minori con speciali norme e garantire ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione». L’art. 38 concerne gli istituti e i diritti all’assistenza e alla previdenza dei cittadini inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi e in particolare dei lavoratori colpiti da eventi che fanno cessare la possibilità di svolgere attività retribuita. Di importanza particolare in materia lavoristica e ancor più sindacale, sono gli art. 39 e 40, che fissano i principi della libertà sindacalee del diritto allo sciopero. La disposizione sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende (art. 46) è di fatto rimasta sulla carta, non essendo state mai emanate le leggi che avrebbero dovuto stabilire «i modi» e «i limiti» di tale partecipazione, fatta eccezione per alcuni diritti sindacali in materia di informazione e consultazione (per es., per il trasferimento di azienda e per il licenziamento collettivo), riconosciuti però ai sindacati e non ai lavoratori (come prescrive la norma costituzionale).

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