Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 22


 Articolo 22 

Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.


Spunti di riflesssione.

  • Articolo 22 – Sicurezza Umana.  Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

Con questo Articolo, la Dichiarazione universale apre la serie di norme che fanno riferimento al valore del benessere integrale dalla persona umana in ottica di welfare e di stato sociale, fornendo così le radici al successivo Patto internazionale del 1966 dedicato specificamente ai diritti economici, sociali e culturali. L’Articolo 9 di quest’ultimo stabilisce l’obbligo degli Stati parti di “riconoscere il diritto di ogni individuo alla sicurezza sociale, ivi comprese le assicurazioni sociali”.

L’Articolo 22 della Dichiarazione fa riferimento alla persona quale ‘membro della società’, dalla quale deve ricevere e alla quale deve dare. C’è qui sottesa la filosofia del personalismo comunitario all’interno della più ampia visione di umanesimo integrale. Alla sicurezza sociale viene infatti associata la realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali, “indispensabili “ alla dignità umana e al libero sviluppo della personalità. Nel commentare i precedenti Articoli, abbiamo più volte evocato la verità ontologica dell’integrità dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia.

Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, che sorveglia l’applicazione del citato Patto internazionale, definisce il diritto alla sicurezza sociale come quello che comprende “il diritto ad accedere e mantenere benefici, sia in danaro sia in natura, senza discriminazione, al fine di assicurare la protezione, tra l’altro, dalla mancanza di reddito da lavoro causata da malattia, disabilità, maternità, incidenti sul lavoro, disoccupazione, anzianità, morte di membri della famiglia, nonché da precario accesso alle cure sanitarie, insufficiente aiuto alla famiglia, in particolare per i bambini e gli adulti non auto-sufficienti”.

Possiamo quindi definire la sicurezza sociale della persona come quella condizione nella società che le consente di essere, quanto più possibile, libera dal bisogno, oltre che dal potere e dalla paura.
L’Articolo 22 della Dichiarazione usa il termine ‘libero sviluppo’ della personalità. Oggi, quando parliamo di ‘sviluppo’, abbiamo in mente processi di ampiezza planetaria, con prevalente riferimento alle popolazioni dei paesi ad economia povera e con particolare attenzione ai programmi della cooperazione internazionale allo sviluppo.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto allo sviluppo” (1986) fornisce una definizione multidimensionale dello sviluppo come “un ampio processo economico, sociale, culturale e politico, che mira al costante miglioramento del benessere dell’intera popolazione e di tutti gli individui sulla base della loro attiva, libera e significativa partecipazione allo sviluppo e nell’equa distribuzione dei benefici che ne derivano” (corsivo aggiunto). L’Articolo 2 di questa Dichiarazione proclama che “la persona umana è il soggetto centrale dello sviluppo e deve essere partecipante attivo e beneficiario del diritto allo sviluppo” e che “tutti gli esseri umani, individualmente e collettivamente, hanno la responsabilità dello sviluppo, tenendo conto del bisogno che siano pienamente rispettati i loro diritti e libertà fondamentali e i loro doveri verso la comunità, che solo può assicurare la piena e completa realizzazione dell’essere umano”.

Dunque, centralità della persona e sviluppo della personalità in un contesto di responsabilità condivise. L’appello alla responsabilità personale è contestuale all’obbligo imposto alle pubbliche istituzioni di garantire la sicurezza sociale delle persone attraverso “lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale” per soddisfare i diritti economici, sociali e culturali.
Lo “stato sociale” non è pertanto un optional per gli stati, è quanto dispone anche il secondo comma dell’Articolo 3 della Costituzione Italiana: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Insomma lo “stato sociale” è altrettanto indispensabile dello “stato di diritto”, sono le due facce di quella medaglia che si chiama: “statualità umanocentrica”.

Il citato Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali chiarisce che gli stati hanno l’obbligo di istituire e far funzionare un “sistema” di sicurezza sociale che può essere variamente articolato (anche con interconnessioni pubblico-privato), ma comunque sempre in grado di garantire le persone contro rischi e imprevisti sociali, tale quindi da coprire almeno nove settori: sanità, malattia, vecchiaia, disoccupazione, invalidità da incidenti sul lavoro, aiuto alla famiglia e ai bambini, maternità, disabilità, orfani.

L’Articolo 22 della Dichiarazione universale indica anche l’ambito spaziale e istituzionale in cui il  diritto alla sicurezza sociale deve essere soddisfatto: nazionale e internazionale. Allo Stato si chiede di ‘sforzarsi’ tenuto conto della sua “organizzazione” e delle sue “risorse”. Dunque, non alla mercè di questa o quella ideologia. Il suddetto articolo dice anche: se tu, Stato, non ce la fai coi tuoi propri mezzi, è tuo obbligo renderti parte attiva nel funzionamento degli organismi multilaterali perché si realizzino politiche di governo dell’economia mondiale nel segno di tutti i diritti umani per tutti e della giustizia sociale.
Il Diritto internazionale dei diritti umani non dà posto al neoliberismo, alla sovranità del mercato, alla deregulation, all’ultima variazione sul tema ‘mercato’: la flexicurity, di cui diremo più ampiamente commentando il “diritto al lavoro”.

Durante l’orgia di deregulation, neoliberismo, ‘nuova economia’, ‘economia virtuale’ degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, di cui oggi paghiamo pesantemente le conseguenze, si sentiva inneggiare: “più società, meno stato”. L’imperativo dei diritti umani dice invece: “più società, più pubbliche istituzioni, più stato sociale, più multilateralismo”. La garanzia dei diritti umani esige che ci siano, e funzionino correttamente, pubbliche istituzioni gestite da persone le quali avvertano fino in fondo che la  loro responsabilità è “pubblica” e che la loro legittimazione, sostanziale e formale, deriva dal rispetto che esse hanno per la eguale dignità delle persone e per i loro bisogni vitali.

Battuta finale: la Conferenza Internazionale del Lavoro (89° sessione, 2001) ha ribadito che “la sicurezza sociale è un fondamentale diritto umano ed un altrettanto fondamentale mezzo per creare coesione sociale”. Come dire: riducendo insensatamente la spesa sociale, oltre che danneggiare l’integrità psico-fisica delle persone, si mette a rischio la ‘pace sociale’ e la democrazia. I Governi Locali, che sono in prima linea nel dover rispondere ai bisogni di sicurezza sociale di quanti vivono nei loro territori, ne sanno qualcosa. Che lo Stato renda loro possibile l’esercizio della loro primaria “responsabilità di proteggere” i diritti umani.”

  • Welfare, Italia bocciata dal rapporto europeo sugli investimenti nel sociale pubblicato su Il Fatto Quotidiano (24 Aprile 2015)

Il documento preparato per la Commissione Europea inserisce la Penisola nel novero degli Stati in cui non si registrano passi avanti negli investimenti per l’assistenza sociale. Tra le cause l’assenza del reddito minimo garantito, la scarsa integrazione tra le politiche per lo sviluppo dell’infanzia e i tagli al Fondo nazionale per le politiche sociali.

Investimenti in calo e politiche scarsamente integrate. Sono i motivi per cui rapporto “Social investment in Europe”, preparato per la Commissione europea dall’European social policy network, boccia il welfare italiano. Nel documento vengono evidenziati “la riduzione delle risorse finanziarie a disposizione deiservizi pubblici e delle amministrazioni locali causi una decrescita degli investimenti nel welfare” e la mancanza di unreddito minimo garantito, che dimostra “l’assenza di unastrategia complessiva nei confronti dell’indigenza e dell’esclusione sociale“.

Il rapporto si concentra sul livello di protezione sociale dei Paesi dell’Unione Europea e inserisce l’Italia nel blocco di Stati in cui non sono stati fatti passi significativi rispetto alle aspettative del Social Investment Package lanciato dalla Commissione europea nel 2013. Nel drappello di cui fa parte la Penisola compaiono anche Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Croazia, Lettonia, Lituania, Malta, Romania e Slovacchia.

Tra le osservazioni mosse a Roma c’è la mancanza di integrazione tra le politiche per l’infanzia. L’aumento del 53% della spesa per le famiglie nel 2014 rispetto al 2010 “non si è infatti tramutato in un adeguato investimento nella protezione sociale”, continua il rapporto, in quanto la spesa si è concentrata in benefici per nuovi nati e bambini adottati e non in servizi di welfare.

Sul fronte della sicurezza sociale dei lavoratori, invece, viene denunciata la scarsità e l’instabilità dei finanziamenti ai servizi sociali gestiti dalle amministrazioni locali, situazione che “ha incentivato la prestazione di assistenza illegale da parte diimmigrati in situazioni precarie”. Preoccupazione anche per i tagli del 32% delle risorse destinate al Fondo nazionale per le politiche sociali nel 2014 (rispetto al 2010), sforbiciata che sale al 58% se si prende come riferimento il 2008.

  • Principio di solidarietà. Diritto dell’Unione Europea da Enciclopedia Treccani

Il principio di solidarietà è diretto a garantire il benessere dell’Unione Europea (UE) attraverso l’adempimento degli obblighi di ordine economico, politico e sociale da parte di tutti gli Stati membri.

Il Trattato di Lisbona del 2007 (in vigore dal 2009), nel modificare il Trattato istitutivo della Comunità Europea (CE) – ora denominato Trattato sul funzionamento dell’UE – vi ha introdotto un’esplicita clausola di solidarietà (art. 222). Questa dispone che gli Stati membri agiscano congiuntamente, “in uno spirito di solidarietà”, qualora uno Stato membro che sia oggetto di un attacco terroristico sul suo territorio o vittima di una calamità naturale o causata dall’uomo, chieda assistenza. In particolare, l’UE utilizza tutti i mezzi di cui dispone, compresi, eventualmente, mezzi militari messi a disposizione dagli Stati membri, per prestare assistenza allo Stato che l’abbia richiesta, al fine di proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da attacchi terroristici o dagli effetti di una calamità. Le modalità di attuazione della clausola di solidarietà sono decise dal Consiglio dell’Unione Europea a maggioranza qualificata, salvo che le misure da adottare ricadano nel settore della difesa, nel qual caso è richiesta l’unanimità.

  • Discorso di Piero Calamandrei in merito alla solidarietà

Domandiamoci che cosa è per i giovani la Costituzione. Che cosa si può fare perché i giovani
sentano la Costituzione come una cosa loro, perché sentano che nel difendere, nello sviluppare
la Costituzione, continua, sia pure in forme diverse, quella Resistenza per la quale i loro fratelli
maggiori esposero, e molti persero, la vita.
Uno dei miracoli del periodo della Resistenza fu la concordia fra partiti diversi, dai liberali ai
comunisti, su un programma comune. Era un programma di battaglia: Via i fascisti! Via i
tedeschi!
Questo programma fu adempiuto. Ma il programma comune di pace, fu fatto in un momento
successivo. E fu la Costituzione.
La Costituzione deve essere considerata, non come una legge morta, deve essere considerata, ed è, come un programma politico. La Costituzione contiene in sé un programma politico concordato, diventato legge, che è obbligo realizzare.
La nostra Costituzione, lo riconoscono anche i socialisti, non è una Costituzione che ponga per meta all’Italia la trasformazione della società socialista. La Costituzione è nata da un compromesso fra diverse ideologie. Vi ha contribuito l’ispirazione mazziniana, vi ha contribuito il marxismo, vi ha contribuito il solidarismo cristiano. Questi vari partiti sono riusciti a mettersi d’accordo su un programma comune che si sono impegnati a realizzare. La parte più viva, più vitale, più piena d’avvenire, della Costituzione, non è costituita da quella struttura d’organi costituzionali che ci sono e potrebbero essere anche diversi: la parte vera e vitale della Costituzione è quella che si può chiamare programmatica, quella che pone delle mete che si debbono gradualmente raggiungere e per il raggiungimento delle quali vale anche oggi, e più varrà in avvenire, l’impegno delle nuove generazioni.
Nella nostra Costituzione c’è un articolo che è il più impegnativo, impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti. Esso dice: << E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che, limitando di fatta la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese >>.
<< E’ compito… di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana>> ! Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità d’uomini.
Soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà veramente affermare che la formula contenuta nell’articolo 1: << L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro>>, corrisponderà alla realtà.
Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messi a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte: in parte è ancora un programma, un impegno, un lavoro da compiere.
Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!
E’ stato detto giustamente che le Costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle Costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica di solito è una polemica contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà che oggi sono elencate e riaffermate solennemente erano sistematicamente disconosciute. Ed è naturale che negli articoli della Costituzione ci siano ancora echi di questo risentimento e ci sia una polemica contro il regime caduto e l’impegno di non far risorgere questo regime, di non far ripetere e permettere ancora quegli stessi oltraggi. Per questo nella nostra Costituzione ci sono diverse norme che parlano espressamente, vietandone la ricostituzione, del partito fascista. Ma nella nostra Costituzione c’è qualcosa di più, questo soprattutto i giovani devono comprendere. Ma c’è una parte della Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società. Perché quando l’articolo vi dice: << E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana >>, riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria perché <<rivoluzione>>, nel linguaggio comune, s’intende qualche cosa che sovverte violentemente. Ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, esse siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dall’impossibilità per molti cittadini d’essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica potrebbe anch’essa contribuire al progresso della società.
Quindi polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente. Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: lo lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno, in questa macchina, rimetterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere quelle promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo, che è, non qui per fortuna, in questo uditorio ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani. E’ un po’ una malattia dei giovani, l’indifferentismo. << La politica è una brutta cosa >>. << Che me ne importa della politica?>>.
Quando sento pronunciare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due migranti, due contadini che attraversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime. Il piroscafo oscillava e allora quando il contadino, impaurito, domanda ad un marinaio: << Ma siamo in pericolo? >> e quello dice: << Se continua questo mare, fra mezz’ora il bastimento affonda >>. Allora lui corre nella stiva, va a svegliare il compagno e grida: << Beppe, Beppe, Beppe! >>. – <<Che c’è? >>. – << Se continua questo mare, fra mezz’ora il bastimento affonda! >>. E quello: << Che me ne importa, non è mica mio! >>.
Questo è l’indifferentismo alla politica: è così bello, è così comodo, la libertà c’è, si vive in regime di libertà, ci sono altre cose da fare che interessarsi di politica. Lo so anch’io. Il mondo è bello, vi sono tante belle cose da vedere e godere oltre che occuparsi di politica. E la politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso d’asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso d’angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso d’angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica.
La Costituzione, vedete, è l’affermazione, scritta in questi articoli che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune: ché, se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E’ la carta della propria libertà, la carta, per ciascuno di noi, della propria dignità d’uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946. Questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, per la prima volta andò a votare, dopo un periodo d’orrori, di caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Io ero, ricordo, a Firenze. Lo stesso è capitato qui: queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta, lieta perché aveva la sensazione di aver ritrovato la propria dignità: questo dare il voto, questo portare la propria opinione, per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi della nostre sorti, delle sorti del nostro paese.
Quindi voi, giovani, alla Costituzione dovette dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendervi conto, rendervi conto, che ognuno di noi non è solo, non è solo; che siamo in più, che siamo parte anche di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora, vedete, io non ho altro da dirvi: in questa Costituzione di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie; essi sono tutti sfociati qui in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli si sentono delle voci lontane.

  • Gustavo Zagrebelsky

La Costituzione vive dunque non sospesa tra le nuvole delle buone intenzioni, ma immersa nei conflitti sociali.
La sua vitalità non coincide con la quiete, ma con l’azione.
Il pericolo non sono le controversie in suo nome, ma l’assenza di controversie.
Una Costituzione come la nostra, per non morire, deve suscitare passioni e, con le passioni, anche i contrasti.
Deve mobilitare.

 

 

  • La solidarietà è un’utopia necessaria di Stefano Rodotà pubblicato su Il Manifesto (4 Dicembre 2014)

La solidarietà è «un’utopia necessaria». Stefano Rodotà spiega il titolo del suo nuovo libro (Laterza, pp. 141, 14 euro) con la storia di Sandra, l’operaia interpretata da Marion Cotillard nel film Due giorni e una notte dei fratelli Dardenne. «Nel film c’è la scomparsa della solidarià tra persone che lavorano nella stessa fabbrica e l’impossibilità di riaffermarla – racconta Rodotà – Sandra dice di non volere “fare la mendicante” quando chiede ai suoi compagni di lavoro di rinunciare al bonus di mille euro per impedire il suo licenziamento. C’è un referendum che ha un esito negativo. Sandra però riacquista la sua dignità perché respinge la proposta di essere riassunta a tempo pieno al posto di un giovane collega africano precario con un contratto a termine. La solidarietà verso questo giovane, che ha votato per lei pur sapendo che l’avrebbe danneggiato, restituisce la dignità dell’essere. Sandra scopre che attraverso la lotta può riaffermare la solidarietà. Nel film c’è un compendio di quello che stiamo vivendo».

Perché si torna a parlare di solidarietà?

La crisi economica ha fatto crescere le diseguaglianze e ha diffuso le povertà. Affidarsi alle forze del mercato è un’opzione debole ben al di sotto della necessità di trovare nuovi principi di riferimento. La solidarietà riemerge nei modi più diversi e supera le distanze esistenti. Ad esempio nel discorso sulle pensioni quando si pone il problema della solidarietà tra le generazioni. Nella salute dove non è possibile limitarsi all’oggi per garantire le condizioni minime di vita. Non è un processo facile. Nelle situazioni di difficoltà le distanze possono crescere insieme all’impossibilità di essere solidali.

Si può essere solidali nelle periferie di Roma o Milano tra crisi, sentimenti xenofobi e sgomberi delle case occupate?

A me sembra che questi conflitti siano indotti anche da chi vuole sfruttare le tensioni esistenti. Ma c’è un’altra ragione: finché le persone erano in condizione di pagare una casa non ritenevano intollerabile il fatto che ci fosse qualcuno in difficoltà che occupava un alloggio o non pagava l’affitto di una casa popolare. Con la crisi ci si è ritrovati in una situazione conflittuale. Pagare un affitto è intollerabile, mentre altri non lo pagano. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte, mentre registriamo un rovesciamento del principio: si costruiscono solidarietà di prossimità o vicinanza e si diventa solidali con chi rifiuta la solidarietà agli altri, ai più lontani, agli stranieri o ai rom.

Qual è la sua definizione di solidarietà?

Mi sembra che il commento di Luigi Zoja sulla parabola del buon samaritano sia calzante. Qui Cristo mostra il contenuto rivoluzionario del suo messaggio: bisogna amare lo straniero, non il prossimo. Amare lo straniero è il punto chiave della solidarietà. La solidarietà per vicinanza, per appartenenza, sono facili. La solidarietà dev’essere praticata in tempi difficili che spingono anche a rotture. Se viene abbandonata, vengono meno le condizioni minime della democrazia, cioè il riconoscimento reciproco e la pace sociale. Con Jürgen Habermas dico che la solidarietà è un principio che può eliminare l’odio tra gli stati ricchi e quelli poveri. La solidarietà serve infatti a individuare i fondamenti di un ordine giuridico mancando il quale tutte le nostre difficoltà si esasperano sul terreno personale e su quello sociale. La solidarietà è, infine, una pratica che mette al centro i diritti sociali. Questo è un altro punto del libro: i diritti sociali non possono essere separati dagli altri.

Qual è stato il contributo del movimento operaio alla storia della solidarietà?

L’Internazionale ha mostrato che la solidarietà non è un sentimento generico di compassione nei confronti dell’altro, né un elemento storicamente indeterminato. La solidarietà dei moderni è una costruzione che ha avuto sempre bisogno di un soggetto storico. Quello per eccellenza è stato il movimento operaio. C’è un canto rivoluzionario che dice: «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo». Qui c’è la consapevolezza orgogliosa della dignità delle donne che diventa principio di azione collettiva. Su questi principi gli esclusi si sono autorganizzati, le loro leghe hanno permesso ai socialisti e ai cristiani di trovare punti di convergenza non compromissoria. Nell’Internazionale si voleva costruire un’umanità che non era la somma di persone, ma la congiunzione di una serie di soggetti che agiscono collettivamente in vista di un interesse comune. Questo ha portato al riconoscimento dell’esistenza libera e dignitosa di cui parla la nostra Costituzione.

Lo Stato sociale ha modificato questa idea del movimento operaio. La sua crisi permetterà alla solidarietà di sopravvivere?

Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità. La solidarietà c’era prima dello stato sociale e ci sarà anche dopo. Per questo oggi si può dire che è il principio di riferimento per la ricostruzione del tessuto politico istituzionale e sociale. La solidarietà va ripensata oltre lo stato sociale. Per questo è essenziale fondare un nuovo spazio costituzionale europeo ispirato a questo principio.

In che modo si può costruire uno spazio simile?

Il riferimento è alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Carta di Nizza alla cui scrittura ho partecipato. Quella carta nacque nel 1999, in una temperie politica e culturale diversa da quella attuale. Allora si voleva andare oltre lo stato sociale nazionale e si fece una diagnosi più radicale di quella che generalmente si fa oggi sull’Europa. L’Unione europea non ha solo un deficit di democrazia, ma un deficit di legittimità. Questo deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Ricordo che i laburisti di Tony Blair fecero molta resistenza e si opposero persino al diritto di sciopero. A tanto era arrivata la loro rottura con la tradizione operaia. So bene che sulla Carta di Nizza ci sono state polemiche. Oggi dovrebbe però far pensare il fatto che è stata messa da parte quando all’Europa è stata imposta un’altra costituzione basata sulle politiche dell’austerità.

Esiste un soggetto capace di riportare la solidarietà al centro dell’attenzione?

Siamo legati ad una modernità che ha riconosciuto il creatore di diritti in un soggetto sociale: la borghesia fece nascere i diritti civili, gli operai quelli sociali. Poi c’è stata una scomposizione dei soggetti, si è parlato di una classe precaria, di quella degli hacker. Ci sono altre definizioni che dimostrano l’esistenza di condizioni umane che superano il fatto personale e sono fatti politici. Ma da sole non bastano. Per questo la solidarietà è importante. Questa è la dimensione utopica: è la condizione che ci permette di non rassegnarci alla frammentazione sociale e ai meccanismi di esclusione.

Il reddito universale può essere considerato uno strumento per affermare la solidarietà a livello europeo?

Ne sono convinto. Molti sostengono che entra in contraddizione con l’articolo 1 della nostra costituzione. C’è un’altra obiezione: il riconoscimento del reddito affievolisce la lotta per il lavoro. In queste prospettive vedo un errore. Si considera che la disoccupazione sia sempre una fase transitoria e la piena occupazione resta un obiettivo a portata di mano. Ma questi discorsi oggi sono lontanissimi. Del reddito universale è possibile fornire varie gradazioni: da quello minimo a quello di base. Tutte possono essere usata per liberare i singoli dal ricatto del lavoro precario o non pagato; a condurre un’esistenza libera e dignitosa; a eliminare la competizione tra i poveri. Montesquieu diceva che abbiamo bisogno di istituzioni, non di promesse né di carità. Il reddito universale dimostra che la solidarietà è un’utopia profondamente piantata nella realtà.

  • Articolo 3 della Costituzione Italiana. Commento del Centro Studi per la Pace

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8,19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Il “pieno sviluppo della persona umana” è richiamato nell’art. 3 secondo comma, come obiettivo da raggiungere col rimuovere gli ostacoli economico sociali che lo impediscono limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini>>. Da esso risulta, però, evidente, <<non solo la centralità di una tutela e promozione costituzionale della persona umana e del suo lavoro quale sua essenziale forma di manifestazione, ma anche la centralità di una dimensione dinamica di tale promozione >>. Da questa disposizione, osservata in maniera sistematica tale da tener conto dell’intero impianto della Costituzione, risulta recepita una dimensione sia statica che dinamica della protezione della persona umana, dimensione quest’ultima che chiama lo Stato ad un ruolo attivo non solo di protezione , ma anche di promozione, attraverso interventi volti proprio alla eliminazione di quegli ostacoli che di fatto possono limitare il godimento dei diritti fondamentali. Per questo lo Stato non è più indifferente rispetto allo sviluppo economico e sociale del paese ma ne è responsabile e, conseguentemente, <<governi e pubbliche amministrazioni devono attivarsi per favorire la costruzione di una economia e di una società più giusta ed egalitaria>>. Lo sviluppo economico e sociale non sarà più indifferente allo Stato proprio perché è nella società che l’uomo sviluppa la propria personalità: in questo senso gli obiettivi di giustizia e sviluppo sociale non saranno più distinguibili dai compiti di difesa dei diritti fondamentali della persona umana. La norma allora realizza una trasformazione radicale dei rapporti tra Stato e società, un ampliamento dei suoi doveri e una relazione di reciproca influenza tra diritti fondamentali e forma di stato così che <<non solo i diritti incidono su quella e la determinano, ma la forma di stato a sua volta incide sui diritti costituzionali dei quali comunque condiziona l’effettività.>>. Come si ripeterà in seguito, sarà proprio il dettato dell’articolo 3 II comma l’indizio principale che ha consentito alla dottrina di identificare il nostro Stato come Stato sociale.”

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