Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 17


Articolo 17

1. Ogni individuo ha diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.


  • Articolo 17 – Senza egoismi. Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

La proprietà ha come oggetto un ‘bene’, materiale o immateriale che sia: oltre che la proprietà di una casa o di un appezzamento di terreno o di uno stabilimento balneare, c’è la proprietà intellettuale (di brevetti, di idee, di composizioni musicali e altre opere artistiche (copyright, c’è il reato di ‘plagio’…).

L’articolo 42 della Costituzione italiana stabilisce che “la proprietà è pubblica o privata”, che “i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati” e che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
A sua volta, l’articolo 1 del Protocollo (1952) allegato alla Convenzione europea dei diritti umani e libertà fondamentali del 1950 recita: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. La disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Il diritto alla proprietà è a cavallo tra la sfera dei diritti di libertà e quella dei diritti economici e sociali.
Il riferimento a ‘funzione sociale’, ‘accessibilità a tutti’, ‘interesse generale’, ‘limiti’, fa trasparire, da un lato, la preoccupazione che ci sia comunque una sopraordinata vigilanza pubblica sulla materia, dall’altro, quello che è, e sarà, un dibattito sempre aperto sulla questione se il diritto di proprietà sia compatibile con tutti gli altri diritti umani, addirittura con principi fondamentali quali l’universalità dei diritti e l’eguaglianza ontica dei soggetti-titolari dei diritti.

Di questo dibattito sono espressione significativa i due Patti internazionali del 1966, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali. In questi due pilastri del Diritto universale dei diritti umani non c’è traccia dell’articolo 17 della Dichiarazione universale. Come noto, i due Patti furono adottati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1966, in piena era bipolare di confrontazione ideologica, politica e militare tra i Blocchi dell’Est e dell’Ovest: il primo, fautore dell’economia pianificata e di forme, più o meno integrali, di collettivismo, il secondo, alfiere del liberismo economico, più o meno temperato da principi di economia sociale di mercato. Il disaccordo sul modo di concepire la società e l’economia è la ragione principale per cui i diritti fondamentali furono separatamente catalogati in due distinti trattati internazionali, in barba al principio dello loro interdipendenza e indissociabilità. C’è da aggiungere che, in quell’epoca, accedevano all’ONU i paesi di recente indipendenza dal dominio coloniale, quasi tutti portatori di culture politiche di marcato orientamento ‘socialista’.

Il riconoscimento del diritto alla proprietà come diritto fondamentale figura invece, oltre che nel citato Protocollo europeo, anche nella Convenzione interamericana del 1969 (articolo 21), nella Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981 (articolo 14), nella Carta araba dei diritti umani del 2004 (art.31).
In tutti questi strumenti giuridici è sempre fatto riferimento ai limiti che discendono dalle esigenze di utilità sociale.
La domanda che sorge spontanea è se tutti i beni materiali (ed eventuali connessi ‘servizi’) possano costituire oggetto di proprietà da parte di singoli, di gruppi o di enti privati. E’ lecito chiedersi se al di là del criterio dell’utilità e della funzione sociale, ci sia una qualche preclusione di carattere ancora più forte alla proprietà di beni. Esistono beni che sono comuni per loro stessa natura oltre che per loro destinazione d’uso. Mi riferisco in particolare ai ‘beni comuni globali’ (global common goods), di cui sono titolari, solidarmente insieme, “tutti i membri della famiglia umana”.

L’acqua certamente non può costituire oggetto di proprietà privata. Essa è un bene comune globale. C’è una vasta mobilitazione su scala mondiale perché venga riconosciuto il diritto all’acqua quale diritto fondamentale. Le proposte sul come tradurre il riconoscimento giuridico paiono convergere per l’adozione, da parte delle Nazioni Unite, di una convenzione a sé stante o, forse più realisticamente, di un Protocollo da aggiungere al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Nel 2007, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha sottoposto alla consultazione degli stati e delle ONG un documento intitolato “Principi-guida su povertà estrema e diritti umani: i diritti del Povero”, in cui, tra l’altro, ci si riferisce all’acqua come ad un diritto umano fondamentale. Il Governo italiano e alcune ONG hanno proposto di completare l’espressione “diritto all’acqua” con “bene comune globale”.

Tra i beni comuni globali figurano certamente quelli ricompresi nel “Patrimonio comune dell’umanità” (monumenti, beni artistici, paesaggistici) sul quale vigila l’Unesco. L’Italia è una porzione molto consistente di questo World Heritage.
Io mi azzardo a dire che tutte le grandi risorse naturali (a cominciare da quelle energetiche) costituiscono, devono costituire beni comuni globali.
Il diritto alla proprietà può significare egoismo, esclusione, discriminazione. Proviamo allora a considerare ed esercitare il singolo diritto in un’ottica di civismo universale. Non soltanto i beni comuni globali, ma anche i beni oggetto di ‘proprietà’, privata o pubblica che sia, sono porzioni del Bene Comune Globale per antonomasia, la Terra: con le sue coltivazioni, le sue montagne, le sue foreste, i suoi campi, i suoi deserti, i suoi mari, la sua atmosfera, i suoi animali, i suoi templi religiosi, le nostre case. Intendo dire che i ‘beni’ oggetto di proprietà sono parti di un Tutto, che bisogna coltivare e preservare nell’ottica della condivisione, dell’aiuto reciproco e della responsabilità di garantire i diritti delle generazioni future. Per gestire i beni comuni globali, oltre che il civismo universale dei singoli e dei gruppi, occorrono istituzioni di governance su più livelli: dal Comune fino all’ONU, che operino nell’ottica dell’economia di giustizia sociale e della salvaguardia dei beni del creato.

Per concludere su un tema per il quale, come d’altronde per tutti gli altri articoli della Dichiarazione, non basta un intero corso universitario: ci sono ‘beni’ che si sottraggono per loro natura a qualsiasi considerazione di ordine per così dire catastale. Sono quei beni che più se ne fruisce, più si moltiplicano e aprono orizzonti di immensa liberazione: i beni spirituali.”

  • Scheda Beni comuni di Unimondo su unimondo.org:

I beni comuni possono essere definiti come l’insieme dei principi, delle istituzioni, delle risorse, dei mezzi e delle pratiche che permettono a un gruppo di individui di costituire una comunità umana capace di assicurare il diritto ad una vita degna a tutti, tenendo conto delle generazioni future e avendo cura della sostenibilità globale del pianeta. Messi sotto attacco della privatizzazione imperante, dettata dalle organizzazioni economico finanziarie globali, i beni comuni, hanno suscitato l’interesse sempre più vasto della società civile in tutte le parti del mondo che ha preso coscienza della loro importanza e oppone con varie modalità alle liberalizzazioni selvagge e alla brevettizzazione della conoscenza e del creato attualmente in corso.

“I beni comuni fondamentali, materiali e immateriali, sono patrimonio collettivo dell’umanità. Risorse collettive, cui tutte le specie hanno uguale diritto; sono pertanto il fondamento della ricchezzareale”. (Giovanna Ricoveri, economista e ambientalista)

Introduzione. Nel corso del XVII secolo in Inghilterra scomparvero le terre comuni o comunitarie, icommons quelle che per diritto consuetudinario erano di uso collettivo delle popolazioni rurali. Recintate poco a poco, furono trasformate in proprietà privata con leggi apposite,Enclosure Bills, leggi sulla recinzione. La scomparsa dei commons fu una premessa della rivoluzione industriale, le terre erano recintate perché servivano all’allevamento intensivo di pecore la cui lana era necessaria alla nascente industria tessile, e fu seguita da un’offensiva ideologica contro l’uso condiviso della terra, a favore della libertà di trasformarla in bene commerciale.

Le terre di uso comune però non sono tutto scomparse (terre, pascoli, foreste, e sorgenti d’acqua da cui attingere, o fiumi e lagune con i pesci che vi si possono pescare, e così via): forme di proprietà e uso collettivo restano molto diffusi nel grande Sud del mondo e in parte, sotto forma di usi civici, perfino nella vecchia Europa. La battaglia attorno ai beni comuni, non è scomparsa così come la spinta a recintarli/privatizzarli anzi si è accentuata. E ormai non si tratta solo terre o risorse naturali, ma di un’amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo.

Beni privati, beni pubblici e beni comuni. Secondo la teoria economica e la definizione del premio Nobel per l’economia, Paul Samuelson, le caratteristiche che distinguono i beni pubblici da quelli privati sono due. I beni pubblici possono essere simultaneamente fruiti da più individui, principio della non rivalità, e nessun individuo può essere escluso dalla loro fruizione, principio della non escludibilità. Queste due caratteristiche, tuttavia, non fanno i conti con il vincolo costituito dalla scarsità del bene. Essendo il bene pubblico limitato, va da sé che la simultanea fruizione da parte di più utenti è soggetta ad una soglia di fruibilità, che pone limiti alla quantità dei fruitori e quindi impone condizioni di escludibilità, necessarie per evitare l’esaurimento del bene stesso o il prodursi di congestione che riduce, fino al limite di annullare, l’utilità del bene stesso.

I beni comuni sono quindi secondo questi parametri non escludibili ma rivali. A questo riguardo nel 1968 Garret Hardin, un biologo, ha scritto un articolo, dal titolo “The Tragedy of the Commons”,che nel corso degli anni è stato preso come punto di riferimento nel dibattito sui beni comuni. Commons è l’antica denominazione anglosassone delle terre comuni. La sua tesi è che la debolezza dell’idea di bene comune sta proprio nella libertà del suo uso da parte di chiunque: “il fatto stesso che i commons siano di libero accesso e che non esista la possibilità di limitare il numero degli utilizzatori porta a una situazione dove il comportamento razionale di ciascuno di loro non può che causare il degrado o la distruzione della risorsa stessa, poiché essi si trovano intrappolati in una tragedia della libertà basata su di un irrisolvibile conflitto tra interessi individuali e interesse collettivo, con l’inevitabile prevalere del primo sul secondo”.

L’idea di matrice essenzialmente economica di Hardin, è stata però messa in discussione dalla ricercatrice Elinor Ostrom con la pubblicazione nel 1990 di “Governare i beni collettivi”. In essa viene rilevato che, tanto la gestione autoritaria-centralizzata dei beni quanto la sua privatizzazione, non costituiscono la soluzione né sono prive di problemi rilevanti. In “Governare i beni collettivi”, partendo dallo studio di casi empirici, nei quali viene mostrato come gli individui reali non siano irrimediabilmente condannati a rimanere imprigionati nei problemi legati allo sfruttamento in comune di una risorsa, è posta in discussione soprattutto l’idea che esistano dei modelli applicabili universalmente.

Al contrario, in molti casi, le singole comunità appaiono essere riuscite a evitare i conflitti improduttivi e a raggiungere accordi su una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni tramite l’elaborazione endogena di istituzioni deputate alla loro gestione. Nonostante siano presenti ovunque i beni comuni, sono difficili da definire, forniscono sussistenza, sicurezza e indipendenza ma non sono merci. Normalmente è la comunità locale che decide chi può usarli e come. Si possono distinguere tre categorie di beni comuni.

Una prima categoria comprende: l’acqua, la terra, le foreste e la pesca, navale a dire i beni di sussistenza da cui dipende la vita, in particolare quella degli agricoltori, dei pescatori e dei nativi che vivono direttamente sulle risorse naturali. A questa categoria di beni comuni appartengono anche: i saperi locali, i semi selezionati nei secoli dalle popolazioni locali, il patrimonio genetico dell’uomo e di tutte le specie vegetali e animali, la biodiversità.

Per beni comuni non s’intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma di proprietà e di gestione degli stessi, forma che è comunitaria, e che pertanto non è né pubblica né privata. Contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre collettive esistono ancora e sono importanti anche nei paesi industrializzati: in Italia, ad esempio usi civici e terre collettive ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale.

Una seconda categoria di beni comuni comprende i beni comuni globali: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni globali, dal momento cioè in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro l’accesso è sempre più minacciato.

Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo. Si tratta di servizi quali: erogazione dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, l’amministrazione della giustizia. i processi di privatizzazione di alcuni servizi che distribuiscono i beni comuni ne mettono a rischio l’accesso universale.

Liberalizzare e brevettare. Sulla liberalizzazione dei servizi pubblici, tra cui l’acqua, sono in corso accordi internazionali come il General Agreement on Trade on Services (GATS) Accordo Generale sul Commercio di Servizi, che tendono a due obiettivi fondamentali: rendere i servizi pubblici compresa l’istruzione, la sanità, la distribuzione di acqua, gas, elettricità, ecc. aperti alla concorrenza internazionale e, di conseguenza, privatizzare i servizi pubblici. La stessa Unione Europea, ispirandosi all’analisi ed alle proposte della Banca mondiale, continua a propugnare la liberalizzazione e privatizzazione dei beni comuni come mezzi di scambio nei rapporti commerciali, come risulta dagli ultimi negoziati con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) e MERCOSUR, mercato comune del sud America.

L’altra crisi investe, come accennato, i servizi che assicurano, più che i beni comuni, ilbene comune: l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la previdenza sociale. Ultimo ma non meno importante e particolarmente significativo è il capitolo riguardante la conoscenza come bene comune: i brevetti delle idee, il software in particolare, l’estensione del copyright ai contenuti digitali, le politiche che tendono a rendere reato la condivisione delle conoscenze, delle formule chimiche e quindi dei principi attivi dei farmaci e perfino del codice genetico, la cosiddetta biopirateria, pongono un forte interrogativo sul futuro del progresso scientifico e tecnologico.

Infine, il tema dei beni comuni sottende ad un recupero di modelli di compartecipazione e di decisione basati sulla democrazia diretta, partecipativa, per tutti coloro che hanno diritto all’accesso aperto ai beni comuni, siano municipalità o gruppi e reti cittadine, soggetti singoli o collettivi di cui negli ultimi anni si stanno occupando fra gli altri l’ARNM (Associazione Reti Nuovo Municipio).

I mercati globali e lotte per la terra. Con il diffondersi del modo di produzione industriale che è penetrato in ogni angolo del pianeta, ai beni comuni si è andata contrapponendo una categoria totalmente diversa di prodotti: quella del cibo/merce,destinato ad esportazioni in località lontane ad opera di aziende agricole e commerciali moderne e specializzate, che mirano sistematicamente ad incrementare le rese unitarie e ad abbattere i costi di produzione. Questo modello economico, funzionale allo sviluppo di mercati nazionali o sovranazionali per l’approvvigionamento di vaste masse di consumatori, è stato progettato e controllato nel corso della storia recente. In particolare dalle classi dirigenti degli stati nazionali moderni, dal sistema organizzativo delle imprese nazionali e multinazionali e da istituzioni sovranazionali del calibro del Fondo Monetario Internazionale (FMI), dellaBanca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio WTO.

A queste organizzazioni si oppongono da ormai un decennio i movimenti della società civile, che a partire da Seattle propongono modelli diversi, e in varie arene alternative, come il Forum Sociale Mondiale. L’autosufficienza, la sovranità e la sicurezza alimentare delle popolazioni locali che delle risorse naturali vivono per assicurarsi il loro sostentamento hanno storicamente costituito per questi poteri centrali niente più che ostacoli da abbattere sulla strada maestra dello sviluppo dell’agricoltura e, soprattutto, dell’incremento dei commerci.

Il meccanismo dei mercati globali hanno piegato il vivente alle loro aspettative di crescita illimitata, e per realizzare questo obiettivo hanno fatto ricorso a ogni tipo di manipolazione meccanica o biochimica dei fattori di produzione, impiegando le ingenti possibilità tecnologiche grazie alle fonti energetiche fossili e ai prodotti chimici di sintesi. Ciò ha comportato l’immissione di enormi quantità di sostanze nocive e persino di OGM(organismi geneticamente modificati) negli ecosistemi, con i relativi impatti destabilizzanti, sulla salute umana, sui sistemi biologici e sullo stesso clima terrestre per via dell’effetto serra.

Ormai è ampiamente riconosciuto da studiosi avveduti e persino dalla FAOl’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, che le policolture tradizionali di piccola scala sono quantitativamente più produttive delle monocolture convenzionali; eppure il senso comune dei cittadini del Nord del mondo continua a nutrire la falsa convinzione che solo l’agricoltura industriale sia in grado di sfamare un’umanità in crescita. Invece una delle principali cause della fame nel mondo sta proprio nel fatto che nei Paesi impoveriti gli ecosistemi vengono sistematicamente sfruttati mediante produzioni da reddito di ogni genere da esportare principalmente nei Paesi ricchi, in tal modo sottraendo risorse vitali indispensabili alla sussistenza di tanta parte delle popolazioni locali.

In tante parti del mondo i poveri rurali lottano contro i piani dei detentori di capitali quando questi minacciano le possibilità di accedere a un’esistenza dignitosa, in nome del diritto all’autogoverno sostenibile dei territori in cui vivono. Tra i più conosciuti ilMovimento Sem Terra, che si batte per la riforma agraria in Brasile, ma sono innumerevoli gli episodi di sofferenza di popolazioni locali colpite da provvedimenti di sviluppo territoriale che rimangono spesso sconosciuti.

E’ questo il caso ad esempio delle enclosures (privatizzazioni forzate) di vastissime terre ancestrali realizzate da vari decenni e in particolar modo negli anni ’80 lungo il corso del fiume Senegal per l’insediamento di grandi opere idrauliche e relativi progetti di agricoltura irrigua orientata all’esportazione. Le conseguenze sono state devastanti per i modi di vita tradizionali, con vaste folle di rifugiati ambientali costretti a lasciare le loro terre e sanguinosi scontri cosiddetti etnici tra soggetti che si contendono risorse idriche sempre più scarse per motivi climatici ma soprattutto per l’avidità di chi si avvale di possibilità tecniche di utilizzo in Oceania, Sudamerica, Africa e non solo.

La “guerra” dell’acqua. La situazione maggiormente critica attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza, assolutamente indispensabile alla vita. Sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, la logica del profitto ha provocato consistenti aumenti delle tariffe, un peggioramento della qualità dell’acqua, l’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli.

Inoltre, nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti le cosiddetteguerre dell’acqua spesso dovuti un processo di colonizzazione che i paesi ricchi hanno attuato nei paesi poveri, dove la maggior parte degli acquedotti è in mano a società europee e americane. Emblematiche sono state le giornate di aprile del 2000, quando tutta la città di Cochabamba è scesa nelle strade per manifestare contro la decisione di una multinazionale statunitense, Bechtel di privatizzare le risorse idriche del paese, che costrinsero il governo a revocare la legislazione sulla privatizzazione.

Nel mondo, i movimenti sociali sono sempre più i protagonisti delle lotte in difesa di un’agricoltura legata ad un nuovo rapporto con la terra e per la democrazia delle risorse idriche. In Italia, associazioni, gruppi e comitati locali già dal 2005 sono attive nei territori decine di vertenze aperte da cittadini, lavoratori ed anche amministratori locali che sono portatrici di un’esigenza comune e condivisa, cioè la necessità di una svolta radicale rispetto alle politiche liberiste che hanno fatto dell’acqua una merce e del mercato il punto di riferimento per la sua gestione, provocando dappertutto degrado e spreco della risorsa, peggioramento della qualità del servizio, aumento delle tariffe, riduzione degli investimenti, diseconomie della gestione.

Nascono così vari coordinamenti come il Forum italiano dei movimenti per l’acqua che hanno promosso raccolta firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare in favore della pubblicizzazione dell’acqua in quanto con l’articolo 23bis della legge 133/2008, si affida “il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica”.

Inoltre da ricordare la campagna della rivista Altreconomia “Imbrocchiamola!” per diffondere l’uso dell’acqua del rubinetto, sono più di mille, in tutte le Regioni italiane, i ristoranti e i locali pubblici che hanno aderito. Intanto la Bolivia e l’Ecuador, hanno recentemente approvato una nuova Carta costituzionale, che estende i diritti sociali all’acqua, al cibo, alla casa, all’energia, all’istruzione, alla salute e difende la natura e le risorse che sono alla base di quei diritti.

  • Il bene comune della Terra (estratto) di Vandana Shiva, scienziata ambientalista tra gli esponenti di spicco del movimento democratico globale (15/11/2006)

Il progetto democratico ed ecologista che ispira questo studio ha origini antiche, ma costituisce anche l’obiettivo di fondo di un movimento politico emergente che difende la pace, la giustizia e la sostenibilità. Concepire il pianeta come una grande comunità e come un bene comune inalienabile a tutte le forme di vita che lo popolano significa porre in correlazione il particolare e l’universale, le diversità specifiche e gli aspetti comuni, le dimensioni del locale e del globale, richiamandosi a quella che in India viene descritta come vasudhaiva kutumbkham, la “famiglia terrestre”, l’insieme di tutti gli esseri viventi che traggono sostentamento dal nostro pianeta. I nativi americani, al pari di tutte le culture indigene del mondo, concepivano la vita come un conti nuum che vincola le sorti dell’essere umano a quelle di tutte le altre specie, attraverso un  condizionamento reciproco che coinvolge tutte le generazioni passate, presenti e future. Il discorso che capo Seattle, della tribù dei Suquamish, pronunciò nel 1848 evoca bene tale continuità del vivente:

Come si può pensare di vendere o di acquistare il cielo, o il calore della terra? Quest’idea è davvero strana per noi. Se la brezza dell’aria e la luminosità dell’acqua non ci appartengono, come potete pensare di comprarle da noi?
Anche la più piccola parte di questa terra è sacra al mio popolo. Ogni ago di pino lucente, ogni riva sabbiosa, la bruma che si diffonde nell’oscurità dei boschi, ogni insetto che ronza sereno è santo nella memoria e nell’esperienza di vita della mia gente. La linfa che scorre negli alberi porta con sé i ricordi dell’uomo rosso.
Questo sappiamo: la terra non appartiene all’uomo; è l’uomo che appartiene alla terra. Questo sappiamo. Ogni cosa è correlata come il sangue che unisce la nostra famiglia. Ogni cosa è correlata.

Il movimento democratico globale prende forma dal riconoscimento  di queste correlazioni, dei diritti e delle responsabilità che ne derivano. La protesta di capo Seattle: “La terra non appartiene all’uomo”, trova eco in altre e più recenti forme di contestazione: “Il nostro mondo non è in vendita”, “La nostra acqua non è in vendita”, “I nostri semi e la nostra biodiversità non sono in vendita”. Queste forme di resistenza alle privatizzazioni imposte dall’ideologia insensata della globalizzazione economica costituiscono le fondamenta del nuovo movimento democratico.

Le multinazionali concepiscono il mondo in termini di mero possesso e il mercato in termini di mero profitto. Ma dopo quanto è accaduto a Bangalore nel 1993, quando mezzo milione di contadini indiani insorsero per opporsi alla classificazione dei semi come proprietà privata sancita dal Wto (World Trade Organization, Organizzazione mondiale del commercio) con l’accordo TRIPs (Trade Relate Intellectual Property Rights) relativo agli aspetti attinenti al commercio dei diritti di proprietà intellettuale, dopo che gli incontri ministeriali sono stati interrotti due volte dalla protesta popolare, dapprima a Seattle nel 1999 e successivamente a Cancun nel 2003, l’agenda delle multinazionali ci appare sempre più contrastata dall’apporto creativo, dall’intelligenza e dal coraggio di milioni di persone che concepiscono la terra come una famiglia, come una comunità che lega tutte le forme di vita e tutti gli esseri umani senza distinzioni di razza, classe sociale, culto o nazionalità.

La globalizzazione imposta dalle multinazionali concepisce il pianeta in termini di proprietà privata. Al contrario, i nuovi movimenti difendono le risorse locali e globali del territorio perché lo intendono come bene comune. Le comunità che insorgono in ogni continente per contrastare la distruzione delle loro diversità biologiche e culturali, dei loro mezzi di sostentamento e delle loro stesse vite costituiscono l’alternativa democratica alla trasformazione del mondo in un gigantesco supermercato, in cui beni e servizi prodotti con costi ecologici, economici e sociali estremamente alti vengono rivenduti a prezzi stracciati. Opponendosi a questa globalizzazione liberista e suicida che inquina il pianeta, dilapida ogni risorsa e impone la dislocazione forzata di milioni di contadini, lavoratori e artigiani, le comunità si impegnano a sviluppare delle economie alternative che proteggono la vita e promuovono la creatività individuale.

La globalizzazione economica si configura come una nuova forma di “enclosure of the commons”, la recinzione delle terre comuni britanniche, come una privatizzazione imposta attraverso atti di violenza e dislocazioni forzate. Anziché generare abbondanza, questa privatizzazione subordinata al profitto produce nuove esclusioni, nuove espulsioni e maggiore povertà. Non solo, ma trasformando in merce ogni risorsa e forma di vita, essa depriva anche i popoli e le specie viventi dei loro fondamentali
diritti in termini di spazio ecologico, culturale, economico e politico. La proprietà privata dei ricchi torna così a fondarsi su una rapina ai danni dei poveri. Le privatizzazioni si traducono in un esproprio delle risorse pubbliche e dei beni comuni dei soggetti più poveri, che si ritrovano a essere economicamente, politicamente e culturalmente depauperati.

I brevetti sulla vita e la retorica di un mondo fondato sulla proprietà privata, in cui qualsiasi cosa, dall’acqua alla biodiversità, dalle cellule ai geni, dagli animali alle piante, viene considerata in termini di merce, si traducono in una visione del mondo che non riconosce il valore intrinseco, l’integrità e la sovranità di ogni forma di vita. Secondo questa ideologia, il diritto dei contadini a disporre dei semi, dei malati a ricevere le loro medicine a prezzi accessibili, dei piccoli produttori a una ripartizione equa delle risorse terrene possono essere liberamente violati. La retorica della proprietà privata nasconde la filosofia di morte di chi, pur scandendo slogan a favore della vita, cerca di impadronirsi di tutte le risorse del pianeta e della creatività umana per controllarle e monopolizzarle. In Inghilterra, le recinzioni delle terre comuni trasformarono milioni di contadini in forza lavoro disponibile sul mercato. Se queste prime recinzioni si limitavano a sottrarre delle terre, l’attuale privatizzazione si spinge fino a mercificare ogni aspetto della vita, dai saperi comuni alle tradizioni culturali, dall’acqua alla biodiversità, inclusi servizi pubblici quali la sanità e l’istruzione.

A fronte di tale situazione, la difesa dei beni comuni costituisce l’espressione più alta di una concezione democratica dell’economia.

  • Earth Day: il futuro della terra nelle nostre mani (estratto) di Silvia Ombrellini, pubblicato su ecobnb.it (22 Aprile 2015)

Cos’è l’Earth Day? Dal 1970, primo anno in cui si è celebrata la Giornata della Terra, sempre più Paesi sono stati coinvolti e ad oggi sono 175 in tutto il mondo.
La giornata ha un duplice scopo. Da una parte riflettere sui diversi problemi che affliggono il pianeta: dall’inquinamento di aria, acqua e suolo, alla distruzione degli ecosistemi, all’esaurimento delle risorse non rinnovabili fino allo smaltimento dei rifiuti tossici. Dall’altra è un’occasione fondamentale per proporre e scoprire soluzioni valide per affrontare tali problematiche. Un segnale importante proprio per la partecipazione dal basso delle comunità, delle organizzazioni, di cittadini ed ecologisti che hanno a cuore il destino e la salute del nostro pianeta.

  • Beni comuni. Definizione del vocabolario Treccani. Lessico del XXI Secolo (2012)

Bèni comuni locuz. sost. m. pl. – L’insieme delle risorse, materiali e immateriali, utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità (in ingl. commons). Si tratta generalmente di risorse che non presentano restrizioni nell’accesso e sono indispensabili alla sopravvivenza umana e/o oggetto di accrescimento con l’uso. In quanto risorse collettive, tutte le specie esercitano un uguale diritto su di esse e rappresentano uno dei fondamenti del benessere e della ricchezza reale. Il concetto fa riferimento, in termini storici, alle terre comuni di uso collettivo per diritto consuetudinario delle popolazioni rurali nell’Inghilterra del sec. 17°, la cui scomparsa costituì la premessa alla rivoluzione industriale. La loro recinzione, avvenuta per mezzo delle Enclosure bills, fu ritenuta necessaria per l’allevamento intensivo delle pecore, la cui lana veniva utilizzata dalla nascente industria tessile. Alla scomparsa dei commons fece seguito l’offensiva ideologica contro l’uso condiviso delle terre per favorirne la trasformazione in bene strettamente commerciale. Se le recinzioni delle terre comuni ha portato la formazione dell’industria manifatturiera e lo sviluppo del diritto proprietario, le attuali enclosures aprono la strada a una diversa forma di capitalismo neoliberista che, a partire dalla deregulation dei servizi sociali, rappresenta una delle linee di sviluppo economico della contemporaneità. In letteratura si possono individuare tre distinte categorie di beni comuni. La prima comprende l’acqua, la terra, le foreste e la pesca, beni di sussistenza da cui dipende la vita, in particolare quella degli agricoltori, dei pescatori e dei nativi, che vivono grazie all’utilizzazione delle risorse naturali; a questa categoria si aggiungono anche i saperi locali, le sementi selezionate nel corso dei secoli dalle popolazioni locali, il patrimonio genetico dell’uomo e di tutte le specie vegetali e animali, la biodiversità. In questo senso possono essere considerati come b. c. non solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Alla seconda categoria appartengono i b. c. cosiddetti globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, tutti quei beni cioè frutto della creazione collettiva. Questi beni sono stati percepiti solo recentemente come b. c. globali, dal momento cioè in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro l’accesso sempre più minacciato. La terza categoria comprende infine i servizi pubblici, forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, come l’erogazione dell’acqua, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, l’amministrazione della giustizia. Essi mutano nel tempo e i processi di privatizzazione ne mettono a rischio l’accesso universale.

Diritto. – Il dibattito teorico sui b. c. è stato vitalizzato alla fine del Novecento dagli studi della politologa statunitense Elinor Ostrom, insignita del premio Nobel per l’economia nel 2009. Penetrata con forza anche in Italia e proposta all’opinione pubblica principalmente in occasione della consultazione referendaria del giugno 2011 sulla privatizzazione dell’acqua, la nozione di b. c. appare, tuttavia, ancora incerta e ambigua e rischia di ampliarsi fino al punto di perdere qualsiasi capacità distintiva. A rigore, per b. c. dovrebbero intendersi risorse materiali o immateriali che per loro intrinseca natura o per scelta normativa possano (o debbano poter) essere fruite da tutti i membri di una determinata comunità per la soddisfazione di interessi primari e diffusi. In relazione a essi non assume, dunque, rilevanza il profilo proprietario o di appartenenza ma quello della fruizione, che deve essere comune o collettiva. I b. c. si propongono quali beni sottratti al mercato e alle sue logiche: indisponibili e inalienabili, non possono costituire fonti di rendita o di profitto. Così intesa, la nozione di b. c. si rivela radicalmente incompatibile con quella di proprietà, sia essa privata o pubblica, accolta nell’ordinamento giuridico italiano e definita dall’art. 832 del codice civile vigente come il diritto «di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo». Cosicché il diritto di proprietà, esclusivo ed escludente, mal si concilierebbe – in difetto di specifici interventi legislativi – con le caratteristiche dell’accessibilità aperta e della fruibilità diffusa che dovrebbero connotare i beni comuni. Con il d.m. 21 giugno 2007 è stata istituita presso il Ministero della giustizia un’apposita Commissione, presieduta da Stefano Rodotà, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. La Commissione, all’esito dei propri lavori, ha formulato una proposta di articolato che – tra l’altro – prevede la distinzione dei beni in: beni pubblici, beni privati, beni comuni. In relazione a questi ultimi la Commissione propone, dunque, il loro inserimento nel tessuto del codice civile qualificandoli come le «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» e precisando che essi devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. La proposta non attribuisce particolare rilievo al profilo proprietario: titolari dei b. c. possono essere persone giuridiche pubbliche o privati, ma sottolinea che «in ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e con le modalità fissati dalla legge». A tale proposito, coerentemente, si prevede che «alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei b. c. ha accesso chiunque» e che «sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane d’alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserve ambientali; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate». L’ambito oggettivo così delineato potrebbe deludere le aspettative dei fautori di un più ampio ed esteso riconoscimento normativo della categoria dei b. c., ma il carattere non tassativo e meramente esemplificativo dell’elenco potrebbe comunque consentire di riconoscere in futuro – a opera del legislatore o per via interpretativa – anche ad altri beni, pur non espressamente indicati, quella medesima utilità funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali che in via generale sembra caratterizzare la nozione di beni comuni. La proposta della Commissione ministeriale non ha avuto seguìto in sede legislativa, ma il tema è ancora ben vivo nelle riflessioni degli studiosi e nel dibattito politico.

  • Storico voto dell’Assemblea generale. L’accesso all’acqua è diritto umano pubblicato su Repubblica.it (29 luglio 2010)

Dopo 15 anni di dibattiti approvata una risoluzione non vincolante. Oltre due miliardi e mezzo di persone in condizioni igienico-sanitarie insufficienti. Ne muoiono ogni anno un milione e mezzo di bambini.

New York – L’accesso all’acqua potabile è uno dei diritti fondamentali, un “diritto umano”. Lo stabilisce una risoluzione delle Nazioni Unite, approvata nella notte dall’Assemblea generale dopo più di 15 anni di dibattiti.

Il documento, non vincolante, era stato presentato dalla Bolivia ed è passato con il voto a favore di 122 Paesi, nessun contrario e 41 astensioni. Nel testo si afferma che “l’accesso a un’acqua potabile pulita e di qualità, e a installazioni sanitarie di base, è un diritto dell’uomo, indispensabile per il godimento pieno del diritto alla vita”. E si invitano gli Stati e le organizzazioni internazionali ad adoperarsi per fornire aiuti finanziari e tecnologici ai Paesi in via di sviluppo, esortandoli ad “aumentare gli sforzi affinché tutti nel mondo abbiano accesso all’acqua pulita e a installazioni mediche di base”.

L’inserimento nella dichiarazione dei diritti umani è un passo decisivo per affrontare la questione sempre più urgente della mancanza di risorse idriche sufficienti per centinaia di milioni di persone. Secondo le stime dell’Onu, ogni anno un milione e mezzo di bambini sotto i cinque anni muore per malattie legate alla carenza d’acqua o di strutture igieniche. E nel testo della risoluzione si afferma che 884 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi vivono in condizioni igienico-sanitarie insufficienti.

Fra le nazioni che si sono astenute gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l’Australia: a loro parere la risoluzione potrebbe minare l’iter in corso a Ginevra presso il Consiglio dei diritti umani per costruire un consenso sui diritti legati all’acqua.

  • Estratto di Wikipedia sui referendum abrogativi del 12 e 13 Giugno 2011 i in Italia, ricordati in riferimento al precedente articolo Acqua diritto umano

Primo quesito
Colore scheda: rosso
Titolo: Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione

Descrizione: Il quesito prevede l’abrogazione della norma che consente di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica solo a soggetti privati scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica o a società di diritto pubblico con partecipazione azionaria di privati, consentendo la gestione in house solo ove ricorrano situazioni del tutto eccezionali, che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato.

Secondo quesito
Colore scheda: giallo
Titolo: Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma

Descrizione: Il quesito propone l’abrogazione parziale della norma che stabilisce la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, nella parte in cui prevede che tale importo includa anche la remunerazione del capitale investito dal gestore[1].

Abrogazione delle norme
Le norme oggetto di referendum sono state formalmente abrogate con decorrenza 21 luglio 2011 da quattro D.P.R. promulgati il 18 luglio 2011, rispettivamente n. 113, 116, 114 e 115 (con riferimento anche al terzo e quarto quesito).

Tuttavia, l’articolo 4 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, approvato dal Governo Berlusconi, pur con diversa formulazione, va a reintrodurre le norme abrogate dal primo quesito, escludendo però, oltre ai servizi che già non vi rientravano (distribuzione di gas naturale, distribuzione di energia elettrica, servizio di trasporto ferroviario regionale, gestione di farmacie comunali), anche il servizio idrico integrato che è stato il principale oggetto della campagna referendaria.

Il 20 luglio 2012 la Corte costituzionale ha giudicato incostituzionale l’articolo 4 della legge 138/11 (di cui sopra) con la seguente motivazione:

« [La legge] viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’articolo 75 della Costituzione » e ancora: « Nonostante l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova disciplina del servizio idrico integrato risulta evidente l’analogia, talora la coincidenza, della norma impugnata rispetto a quella abrogata dal voto popolare, nonché l’identità della ‘ratio’ ispiratrice. Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum riguardava pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato, dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica, sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare. » e infine: « L’affidamento ai privati è una facoltà e non un obbligo. »
La Corte stabilì inoltre che questa sentenza annulla anche le disposizioni contenute nel primo pacchetto di riforme economiche del marzo 2012 (cresci-Italia) volute dal Governo Monti in materia di privatizzazioni.

La sentenza potrebbe annullare alcuni provvedimenti nella successiva legge di riordino della spesa pubblica (spending review) del luglio 2012, sempre voluta dal governo Monti.

  • Perché a 5 anni dal referendum l’acqua pubblica divide ancora di Michelangelo Borrillo pubblicato su Corriere.it (22 marzo 2016)

Sel e M5S accusano il Pd di non aver rispettato i dettami dei quesiti referendari del 2011 con gli emendamenti proposti al disegno di legge in Commissione Ambiente.
La 25esima Giornata mondiale dell’acqua – fu istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 – che si celebra come ogni anno il 22 marzo, arriva in Italia in un momento di nuova polemica sulla gestione pubblica della risorsa idrica. Maggioranza (Pd) e opposizioni (M5s e Sel) da alcuni giorni si stanno fronteggiando su «ruolo forte del pubblico» e «ripubblicizzazione» del settore idrico.

La contesa. A dividerli è il disegno di legge sull’acqua all’esame in Commissione Ambiente della Camera. Un disegno di legge di Sinistra Italiana e Movimento 5 Stelle – scritto dai cittadini, portato avanti dal Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua fin dal 2007 e arrivato in discussione in questa legislatura con la costituzione di un intergruppo di parlamentari chiamato Acqua bene comune – che, secondo i promotori, «avrebbe finalmente allineato la normativa italiana a quanto deciso dai cittadini con il referendum sull’acqua pubblica del 2011». E che, invece, sarebbe stato stravolto dagli emendamenti presentati dai deputati dem. E così, per le opposizioni, il Pd «vuole affossare il referendum del 2011 privatizzando l’acqua pubblica»; per i parlamentari della maggioranza, invece, «non è vero, non c’è nessuna privatizzazione, ma solo la garanzia di un uso responsabile e sostenibile della risorsa idrica».

Gli emendamenti. Le modifiche al disegno di legge finite nel mirino delle opposizioni sono due: nel comma 3 dell’articolo 4 le parole «L’affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche» sono sostituite con le seguenti: «In via prioritaria è disposto l’affidamento diretto in favore di società interamente pubbliche». Ci sono inoltre altri due emendamenti che vanno ad abrogare i primi due commi dell’articolo 6 del disegno di legge, eliminando l’assunto che le infrastrutture idriche rimangano in mano pubblica. I commi abrogati sono i seguenti: 1. Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture e dotazioni patrimoniali afferenti al servizio idrico integrato costituiscono il capitale tecnico necessario e indispensabile per lo svolgimento di un pubblico servizio e sono proprietà degli enti locali, che non possono cederla. Tali beni sono assoggettati al regime proprio del demanio pubblico ai sensi degli articoli 822 e 824 del codice civile. Essi sono inalienabili e gravati dal vincolo perpetuo di destinazione ad uso pubblico. 2. La gestione e l’erogazione del servizio idrico integrato non possono essere separate e possono essere affidate esclusivamente a enti di diritto pubblico.

Il nodo del referendum. A guardar bene le argomentazioni delle due parti, però, il motivo del contendere è proprio il referendum tirato in ballo dalle opposizioni. Per queste ultime, infatti, l’emendamento presentato dal deputato del Pd Enrico Borghi «cancella l’articolo che prevede che l’acqua sia pubblica, che la gestione dell’acqua sia pubblica e che le infrastrutture dei servizi idrici siano pubbliche». In poche parole, cancella il referendum di 5 anni fa. Per il Pd, invece, i quesiti referendari del giugno 2011 ponevano altre questioni: «Il referendum sull’acqua aveva due quesiti molto chiari: stop alla privatizzazione forzata del servizio idrico integrato e stop alla remunerazione del capitale fissata al 7% per evitare che ci fossero margini di profitto garantiti sul servizio idrico. Su questo hanno votato 26 milioni di cittadini. Non certo sulla ripubblicizzazione della gestione del servizio dell’acqua come ora gridano i grillini senza dire però, con altrettanta chiarezza agli italiani, che un’operazione del genere costerebbe un miliardo di euro». Più nel dettaglio – spiega il deputato Borghi – i grillini «parlano di un referendum che non si è mai svolto. Su cui gli italiani non sono mai stati chiamati a esprimere il parere. Un referendum che fu preventivamente bocciato dalla Corte Costituzionale, e pertanto non arrivò mai alla matita del popolo sovrano. Loro confondono quanto gli italiani hanno votato con un referendum mosso dalla ideologica convinzione, di Sel e M5S – prosegue – che ai cittadini l’acqua arrivi più pulita a seconda della forma giuridica dell’azienda che gestisce il servizio e non, invece, sulla base della competenza degli amministratori, e la qualità della regolazione pubblica. E che per questo fu dichiarato illegittimo dalla Consulta».

La posizione di Renzi. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è intervenuto sulla questione ritwittando un testo che porta la firma di Luigi Marattin, consulente economico di Palazzo Chigi. Marattin nel suo articolo sull’Unità spiega che i due quesiti del 2011 approvati dai cittadini erano l’uno per rendere «un comune libero di scegliere se fare la gara o se affidare in-house» il servizio (senza obbligo, quindi), l’altro perché «le bollette dell’acqua non contengano una copertura di costi `forfettaria´ degli investimenti sulle infrastrutture idriche, ma una copertura solo dei costi effettivamente sostenuti».

Le richieste del Wwf. La posizione del Pd, però, non convince gli ambientalisti. Il Wwf Italia si è rivolto ai deputati della Camera «affinché rispettino la volontà di 26 milioni di italiani che nel 2011 hanno votato per mantenere la gestione del servizio idrico e la proprietà delle infrastrutture in mano pubblica». Nel dettaglio, il Wwf chiede «che vengano ritirati gli emendamenti che modificano alcuni articoli del progetto di legge di iniziativa popolare attualmente in discussione alla Commissione Ambiente e che venga ripristinato il testo originale. La proposta di legge di iniziativa popolare, prosegue il Wwf, «è stata presentata da centinaia di associazioni nazionali e comitati locali impegnati nella salvaguardia del bene acqua e fu sottoscritta da ben 400mila italiane e italiani (secondo la legge ne bastavano 50mila). Il Parlamento l’ha tenuta nei cassetti per anni, ignorandola, nonostante tale proposta sia stata avallata dall’esito referendario del 2011 quando l’Italia si pronunciò in maniera schiacciante contro la privatizzazione dell’acqua». Secondo l’associazione ambientalista, «è veramente un paradosso che proprio la proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata alla tutela dell’acqua come bene comune venga stravolta da una serie di emendamenti e finisca per essere il grimaldello per far ripartire il percorso di privatizzazione della risorsa idrica».

Il caso concreto dell’Acquedotto Pugliese. La contesa tra Pd e opposizione di sinistra ha, in un certo senso, un precedente in Puglia. Nel 2005 il governatore pugliese Nichi Vendola, che aveva vinto le elezioni regionali inserendo tra i caposaldi del suo programma la ripubblicizzazione dell’Acquedotto Pugliese, chiamò alla presidenza dell’azienda il professor Riccardo Petrella, tra i principali esponenti dell’altermondialismo che prevede l’acqua come bene comune. L’obiettivo era quello di cancellare la società per azioni e riportare l’Acquedotto Pugliese all’antico status di ente pubblico. Constatata l’impossibilità del progetto, Petrella lasciò la guida di Aqp. E Vendola dovette rinunciare al suo sogno di ripubblicizzazione. L’Acquedotto Pugliese è tuttora a capitale pubblico (controllato dalla Regione Puglia) ma nella forma giuridica di società per azioni.

  • Costituzione Italiana

Art. 41

L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Art. 42

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. 
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. 
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Art. 43

A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

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