Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 12

Con l’articolo 12 la nostra maratona di diritti verso la Marcia per la Pace 2016 arriva a toccare la delicata e controversa questione del diritto alla privacy: in un mondo iperconnesso caratterizzato da una crescente pervasività della tecnologia la tutela della privacy individuale va incontro a nuove sfide, specie in relazione al suo incontro-scontro con la questione della sicurezza, tant’è che diventa fondamentale rivendicare l’essenza di questo diritto, la cui formulazione e comprensione è un fenomeno relativamente recente (e per certi aspetti ancora incompiuto) in quanto strettamente legato al concetto stesso di cittadinanza.


 Articolo 12

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.


Spunti di riflessione.

  •  Stralci dall’intervista su privacy e libertà di Stefano Rodotà (a cura di P. Conti), 2005:

“Marc Bloch , nel suo saggio La società feudale, ricorda che nel Medioevo la riservatezza era possibile solo per i monaci o per i banditi”, osserva Rodotà in una delle risposte conclusive alla intervista rilasciata a Paolo Conti. Perché l’affermazione di Bloch è importante?

Perché, a differenza dell’epoca medievale, nella nostra epoca il controllo sociale della comunità non è più appannaggio dei parenti, degli amici, dei vicini o dei superiori; il piccolo villaggio è diventato davvero il villaggio globale, e il controllo è effettuato dalle imprese che comprano e vendono informazioni, dagli enti pubblici che schedano i cittadini, e da quanti – a buon diritto, ma più spesso a torto – considerano i dati personali altrui come una risorsa disponibile. “Privacy” vuol dire molte cose. Il suo significato è cambiato nel corso del suo secolo di vita e si è arricchito via via in corrispondenza alla maturazione della coscienza sociale e alla diffusione dei diritti civili. Certo, le sue origini peccano di una connotazione di classe: solo i borghesi come un grande avvocato di Boston, Samuel Warren e un colto giudice , Louis Brandeis, potevano pensare che la curiosità dei giornalisti dovesse arrestarsi sull’uscio di casa e che al singolo si dovesse garantire una dimensione di intimità come si garantiva la sua proprietà immobiliare dalle intrusioni dei lestofanti. Ma da allora la privacy ha cambiato volto, non ha più una dimensione “proprietaria” e non è più sinonimo di solitudine, ma di tranquillità e poi, soprattutto, di libertà.

Faulkner metteva il dito su un’altra piaga: la riservatezza delle persone note. Ma le sue belle pagine  descrivevano senza pietà la scarnificazione della persona prodotta dai mass media. La privacy , almeno dalla metà degli anni Cinquanta, acquista un risvolto sociale . Qualche anno dopo – sono gli anni in cui in Italia si dà corpo al “diritto alla riservatezza” – viene utilizzata come limite alla libertà di cronaca; e qualche anno dopo ancora viene accostata al “diritto alla identità personale”, il diritto ad essere rappresentati nei valori e nelle convinzioni in cui si crede, nel modo di essere che corrisponde a ciò che è voluto dal diretto interessato .

Privacy è dunque nozione/diritto legata alla identità della persona. Non è affatto un concetto uniforme, e costituisce un “bene essenziale del cittadino di oggi”. L’espressione di cittadino non è utilizzata a caso: nel vocabolario che abbiamo imparato dai saggi di Rodotà “cittadino” è la persona che gode di diritti e di doveri, di interessi protetti, soprattutto di libertà non solo formali; è l’espressione della “cittadinanza” costruita da T. H. Marshall nel 1949, che fa riferimento alle libertà fondamentali, ai servizi sociali essenziali, al livello minimo di sopravvivenza confortevole in una comunità. Privacy significa, nella sua dimensione relativa alla raccolta di dati, “diritto di poter controllare tutte le informazioni personali raccolte da altri” con finalità legittime. Significa anche esattezza dei dati, con il relativo diritto a correggerli, integrarli, aggiornarli, oppure a cancellarli quando essi siano diventati obsoleti. Si tratta di diritti che la stessa Carta di Nizza (artt. 7 e 8) e ora la Costituzione europea garantiscono con chiarezza.

Con un’immagine efficace Rodotà dipinge il “secondo corpo” della persona, che non è il corpo mistico del Re, ma il corpo informatico che convive con il corpo fisico di ciascuno di noi, senza differenze di appartenenza sociale, di livello culturale, di abitudini di vita. E’ un corpo che non ci siamo scelti, ma di cui siamo rivestiti grazie alla rete di informazioni annodata dalle nostre tracce informatiche. L’esperienza italiana è ricca di valori ma anche di insidie. C’è voluto tempo perché le nuove dimensioni della privacy potessero accreditarsi. Il Garante  ha portato ordine, orientamenti, semplificazioni. Anche se la società italiana sembra ormai affetta da strabismo: mentre prende coscienza di questo grande bene indulge al voyeurismo televisivo. Il Grande Fratello, da monito orwelliano, si è trasformato in uno spettacolo di cassetta! Quando però il sistema cominciava a funzionare, ricevendo approvazione e consensi – numerosi sono gli esempi che Rodotà offre in questa gustosa ricostruzione della cronistoria della privacy in Italia – è arrivato l’ “11 settembre” , e poi il terrorismo in Spagna, nel Regno Unito e in altri Paesi occidentali.

Qui l’alternativa è drastica: la sicurezza implica solo restrizioni alle libertà, o si può individuare un percorso intermedio? La risposta del Parlamento italiano è stata la seconda. Non possiamo – da occidentali – piegarci al terrorismo e rinunciare ai nostri diritti, mentre possiamo cooperare per poter sopportare qualche limitazione funzionale alla prevenzione del crimine. Trattandosi però di nostri diritti, occorre consapevolezza critica, dialogo, discussione: insomma occorre essere partecipi di scelte che toccano le nostre libertà. Ecco perché l’entità del titolo potrebbe essere tramutata in un asserto:: privacy è libertà. Così si combatte il fango.

  • Sintesi dell’intervento di Roberto Saviano al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Edizione 2011:

Che cos’è la macchina del fango? È delegittimazione, attacco personale, screditamento attraverso il gossip, gogna pubblica di fatti privati come un calzino color turchese o una vecchia foto di vacanze su una spiaggia nudista. È un sistema semplice e antico che funziona talmente bene da diventare regola: chi si pone contro il governo o certi poteri, finirà infangato.

Critichi? Ti opponi? Sarai delegittimato. Si attiva una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari. Spesso si giustificano con la scusa dell’inchiesta. Ma esiste una differenza fondamentale tra diffamazione e inchiesta. L’inchiesta raccoglie una molteplicità di elementi per mostrarli al lettore. La diffamazione prende un singolo elemento privato e lo rende pubblico. Non perché si tratti di un reato e nemmeno di qualcosa che tiene al ruolo pubblico della persona nel mirino. Ma la mette in difficoltà, la espone, la costringe a difendersi. Così il fango intimidisce, ostacola la partecipazione, invita a evitare di rovinarsi l’esistenza. Utilizza ogni cosa e non solo qualcosa di privato che attiene alla tua sfera intima ma un tuo connotato che faccia ombra: un talento, un coraggio, un’ambizione, un’aspirazione alla bellezza. Qualunque cosa attenti alla selezione alla rovescia che è prevalsa nella vita pubblica, e che deve garantire la durata dei peggiori. I peggiori sono i peggiori, o, peggio, i migliori che hanno tradito e si sono traditi e non se la sentono più di cambiare, di risalire, e mirano a tirare giù gli altri. Il gossip, paroletta che vuole rendere leggera la brutalità della maldicenza e rendere carina la liquidazione della discrezione, è oggi uno strumento estorsivo sulla vita personale, un racket sulla privacy. Perché il fango mira alla tua sfera più intima. Ti costringe a difenderti da ciò che non è né colpa né crimine, ma solo la tua vita privata. È sacra la privacy su chi incontri, su chi frequenti, sul fatto che nessuno, tranne la persona amata, deve ascoltare una tua dichiarazione d’amore. Ma se candidi le tue amiche e puoi finire vittima di ricatti ed estorsioni, questo smette di essere un fatto privato e diventa invece condizionamento della vita pubblica di un intero Paese. La privacy è tutela della vita e della voglia di vivere. L’abuso di potere è un’altra cosa, scontata da altri.

Lo scopo della macchina del fango è cancellare questa differenza fondamentale. Poter dire e ribadire: siamo tutti uguali, lo fanno tutti. E questo funziona benissimo, perché molti non comprendono la differenza, ma soprattutto perché è comodo pensarci tutti peccatori. Se siamo tutti uguali, nessuno è più costretto a fare uno sforzo per cercare di essere migliore. Questo meccanismo si nutre di una tendenza tipica del nostro Paese: se emergi, sarai stato favorito; se ti esponi, sei un narciso; se hai ambizioni, sei un opportunista. Più un potere è in crisi, più cercherà di portare nel proprio abisso tutto ciò che gli sta attorno. Viene in mente la massima: nessuno è un grand’uomo per il proprio cameriere. Il precetto di oggi che la macchina del fango impone dev’essere: nessun uomo, tutti camerieri. La libertà di stampa in Italia è compromessa dalla certezza che non verrai criticato per quello che dici, ma cercheranno di demolire la tua vita, la tua dignità, anche laddove non c’è ombra di reato. Ma non è un meccanismo che riguarda solo i giornalisti. La stessa cosa successe al presidente della Camera Fini, quando cominciò a dissentire da alcune posizioni a proposito di giustizia e legalità. Ma vale la pena ricordare soprattutto il direttore di Avvenire, Boffo, che aveva iniziato a criticare la condotta di Berlusconi. Nel maggio del 2009 aveva scritto: “Continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all’anima del Paese”. Subito entrò in azione la macchina del fango, riesumando una storia vecchia di anni che riguardava una multa pagata per chiudere una diatriba giudiziaria minima (telefonate a una persona che non voleva essere disturbata). Non solo: vi si aggiungeva un documento di supposta natura giudiziaria che diceva: “Noto omosessuale già attenzionato dalla polizia”. La diffamazione si basava dunque su un documento falso, perché in nessun atto giudiziario Boffo risultava né omosessuale né tantomeno “attenzionato” dalla polizia. Ma, a parte questo, quale sarebbe il suo reato: l’omosessualità? Chi crede che l’omosessualità sia “da attenzionare” si comporta da sgherro di regime, regime qualsiasi. Boffo, per questo fango, è costretto prima a difendersi e poi a dimettersi. E il politico pdl Stracquadanio conia un termine sinistro che mostra come la diffamazione stia diventando metodo: il “trattamento Boffo”, che richiama il “Trattamento Ludovico” di Arancia Meccanica.

La macchina del fango è un meccanismo vecchio. Ci avevano provato anche con Giovanni Falcone, criticandolo non per il suo operato, ma per la sua immagine. Anche il fallito attentato all’Addaura dell’estate 1989 diventa pretesto per la diffamazione; nei salotti di Palermo, infatti, si dirà che la bomba l’ha fatta mettere lui stesso, per attirare l’attenzione su di sé a fini di carriera. Falcone conosceva bene l’Italia e il meccanismo secondo cui se la mafia non ti uccide, se l’attentato salta, si rischia di non essere credibili. Solo la morte può legittimarti. Dopo la diffidenza mostrata verso l’autenticità dell’attentato dell’Addaura, diventano pubbliche sei lettere anonime del “Corvo”, indirizzate a diverse figure istituzionali. Nelle lettere il magistrato viene accusato di aver fatto rientrare dagli Usa il collaboratore di giustizia Contorno e di averlo usato come killer di Stato per stanare i corleonesi. Solo il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, le critiche personali cessano. La morte di Falcone azzera le polemiche, Falcone diventa eroe. Quasi che la morte fosse l’unica prova possibile dell’autenticità della sua lotta alla mafia.

In Italia, la macchina del fango ha avuto un bersaglio prediletto in Pier Paolo Pasolini. Contro un intellettuale scomodo, indipendente, per giunta apertamente omosessuale, si tirava persino fuori un’accusa di rapina da cui lo scrittore è stato prosciolto con piena formula. Non solo attacchi da giornali di destra, ma anche giudizi sprezzanti di molti uomini della sinistra che trovavano scomoda la figura del Pasolini omosessuale. Lo scrittore subì innumerevoli denunce e 33 processi nel corso di 27 anni; non si sottrasse mai al processo. Lo stesso Pasolini scrisse su Paese Sera l’8 luglio 1974: “Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo… Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona…”. Pasolini parla di paura, terrore: è questo che produce la macchina del fango e che spesso porta a non agire, a evitare di partecipare, a compiere uno sforzo per migliorare le cose. Una volta Enrico Deaglio nel ricordare Mauro Rostagno usò un detto siciliano: “I vermi non l’hanno a mangiare”. I vermi, vale a dire, non avranno alcun potere se vivrà più forte il ricordo di un uomo che si è adoperato per il bene e per il giusto. Oggi vale purtroppo anche per i vivi. Se ti poni contro il potere i vermi della delegittimazione ti vengono gettati addosso.

Ribadisco, l’unico modo per fermare la macchina del fango è non darle credito. Riconoscerla, dire: è fango, non mi interessa, non mi riguarda. Facendo muro contro la maldicenza, non diventandone un veicolo di diffusione, non riprendendo la notiziola su un compenso o su una relazione. Non è difficile avere la possibilità di impastarsi meno con il veleno. Basta ricordare come ci si sente quando si diventa oggetto di illazioni false, di pettegolezzi maliziosi, di mobbing fondato su presunte inadempienze, qualcosa che è capitato a tutti. La macchina del fango è un meccanismo persecutorio che non mira solo a distruggere un avversario, ma che sta scardinando ogni possibile patto di fiducia all’interno di questo Paese. Fermarla equivale a difendersi da un acido corrosivo. Nel maggio del 1924 Giacomo Matteotti denunciò i fascisti per i brogli elettorali e, terminato il discorso, disse: “Ed ora preparatevi a farmi l’elogio funebre”. Sapeva che sarebbe stato ammazzato. Non sembri troppo drammatico il citare Matteotti se oggi la consapevolezza di chiunque si ponga contro il potere del governo sia quella di sentirsi “pronto alla più feroce delle campagne di delegittimazione e fango”. Per ogni denuncia, per ogni critica, per ogni gesto di coraggio, per ogni resistenza, sai già cosa ti capiterà per cui senza paura dinanzi al “tutti facciamo schifo” risponderei come risposero i ragazzi di Locri alla bestialità ndranghetista: e ora infangateci tutti.

  • Stralci dell’articolo di Francesco Boille pubblicato su Internazionale (Marzo 2016) riguardante il film, vincitore del premio Oscar, Il caso Spotlight di Thomas McCarthy (2015):

Il regista Thomas McCarthy ha un cognome che nella storia degli Stati Uniti è sinonimo di oscurantismo. Ma con Il caso Spotlight McCarthy (che è anche un attore e sceneggiatore) realizza un film ambientato in un’epoca, il 2001-2002, in cui il maccartismo era ormai un lontano ricordo, pur tenendo conto che siamo negli anni tetri di Bush.

Boston – la Boston europea, la Boston dei padri pellegrini, la Boston dei Kennedy – in quegli anni era avvolta da un oscurantismo sotterraneo, una cappa di omertà e ipocrisia. Chi cercava di squarciarla finiva isolato, messo all’angolo. Nel raccontare la vicenda della squadra di giornalisti investigativi del Boston Globe – lo Spotlight appunto – che ha obbligato la chiesa cattolica ad ammettere l’esistenza di preti pedofili e a prendere provvedimenti, il regista ha scelto una forma sobria, modesta nel senso buono del termine.

Non è un cinema esibito, non ci sono volteggi di regia, il montaggio è piuttosto serrato (anche se la narrazione ha una sua lentezza) e non c’è un incalzare di musiche o effetti sonori. Insomma è come se si volesse lasciare spazio ai dialoghi, alle parole tirate fuori con fatica, ai silenzi, ai non detti, lasciando respirare la coscienza dei vari personaggi che si succedono. Tutti, chi più, chi meno, si mettono alla prova. Del resto il tema del film è talmente grave e doloroso che si può comprendere la scelta del regista: fare un film non sensazionalistico, proprio come, su una vicenda del genere, non si dovrebbe fare del giornalismo sensazionalistico. Bastano i dati e le testimonianze. Dati e testimonianze che fu difficile portare alla luce e dai quali emerse che nella diocesi di Boston oltre settanta preti avevano compiuto abusi sessuali su minori. L’inchiesta, premiata con il Pulitzer, ha portato ad altre scottanti rivelazioni in oltre duecento città del mondo.

Quindi nessuna spettacolarità vanagloriosa, il fine è quello di mettere al centro l’uomo. Gli esseri umani. Le vittime, certo, ma anche i giornalisti. Quando il neodirettore del Boston Globe, Martin Baron, spinge il capo di Spotlight, Walter Robinson, interpretato con asciutta intensità da un rinato Michael Keaton, a riaprire l’inchiesta, quella che era una solitudine di chi aveva cercato di aprire già a suo tempo un varco, diviene ben presto una solitudine condivisa anche con i giornalisti. Una solitudine che a loro volta potranno condividere con le vittime, per tanto tempo sole e abbandonate con il loro dolore. Pian piano, si crea un’unità spirituale tra gran parte degli attori della vicenda. È un film corale in cui, grazie al lavoro di squadra, si rompono le omertà, e simultaneamente, si rompe anche questa condizione umana di solitudine endemica. Raggiungendo una coralità più ampia, quella della società, la comunità ferita si ricompone.

Per mezzo di una spettacolarità ritratta, se non in ritirata, e pur costruendo personaggi di carattere – l’avvocato disilluso che tentò per primo di preparare un dossier, interpretato da Stanley Tucci, il giornalista un po’ rugbysta interpretato da Mark Ruffalo, lo stesso Keaton –, mettendo al centro giornalisti in quanto esseri umani al pari delle vittime, si delinea meglio ancora una sorta di piccolo manifesto contro tutte le omertà. Il film è proprio una disamina del meccanismo che vi conduce.

Omertà che coinvolge anche il giornalismo stesso. L’inchiesta era stata insabbiata da Robinson prima di essere rilanciata. Se il giornalismo è sempre più criticato per conformismo, pavidità, superficialità o addirittura contiguità con i poteri forti, il racconto di questa inchiesta deve far riflettere tutti. Lo stesso Robinson, ospite insieme a Keaton alla presentazione del film a Roma, ha sottolineato come il giornalismo sia oggi troppo soggetto, per colpa degli editori e per non consapevolezza dei lettori, alla notizia veloce, d’effetto, spettacolare o facilmente aneddotica, influenzato dal fatto che la ricerca costante di notizie “curiose” sia lo strumento per i continui tagli al giornalismo d’inchiesta. Un tipo di giornalismo che, al tempo stesso, è quello che il lettore si attende di più.

In conclusione, forse non è inutile dire che spesso il giornalismo è il problema. Ma anche la soluzione.

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