Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 10
Oggi si completa il primo terzo del nostro cammino di diritti verso la Marcia per la Pace Perugia-Assisi 2016: con l’articolo 10, e i nostri soliti spunti di riflessione a seguire, affrontiamo la delicata questione della certezza del diritto e della indipendenza della giustizia, conditio sine qua non dell’esistenza stessa dei diritti e della loro tutela.
Articolo 10
Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.
- Un (immancabile) commento del Prof. Antonio Papisca:
Come per altri articoli, anche in questo caso il Patto internazionale sui diritti civili e politici e le Convenzioni giuridiche sono più dettagliati. L’articolo 9 del Patto, in particolare i commi 2 e 3, stabiliscono che chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un’accusa di carattere penale deve essere tradotto “al più presto” davanti ad un giudice e la detenzione delle persone in attesa di giudizio non deve costituire la regola. L’espressione “al più presto” viene ribadita dal terzo comma dell’articolo 5 della Convenzione europea con l’aggiunta che la persona in questione “ha diritto ad essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante il procedimento”.
A queste norme riguardanti il processo dentro gli stati, occorre aggiungere le altre che dispongono che le persone, una volta esauriti i rimedi interni, hanno il diritto e la possibilità di adire anche i tribunali internazionali competenti a giudicare in materia di diritti umani (Corte europea, Commissione e Corte interamericana, Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, Corte penale internazionale, Tribunali internazionali speciali). Come dire, la sfera della giustiziabilità è andata al di là della mera ‘giurisdizione domestica’ degli stati.
Le garanzie qui evocate sono costituite, innanzitutto, dalla reale possibilità che tutte le persone, su un piede di ‘piena eguaglianza’, possano adire un tribunale, che giudichi super partes. Il tribunale deve essere indipendente, in particolare rispetto al potere dell’Esecutivo, e i suoi membri devono procedere in tutta imparzialità. La cosiddetta certezza del diritto è assicurata primariamente dalla magistratura. Siamo in presenza di principi fondamentali dello ‘Stato di diritto”, che prevedono la “distinzione dei Poteri’ (legislativo, giudiziario, esecutivo). Nel sistema democratico, il potere legislativo, esercitato dal Parlamento ha certamente la primazìa sugli altri, ma anche lo stesso Parlamento, nell’esercizio della delega ricevuta dal ‘popolo sovrano’ (democrazia rappresentativa), non può discostarsi dal nucleo duro di principi e norme costituito dal Diritto internazionale dei diritti umani, non può insomma disattendere l’obbligo che anche su di esso incombe di salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali della persona. In altre parole, e sempre con riferimento ai sistemi politici democratici, quando si tratta di ‘riformare’ il processo e la magistratura occorre aver ben presenti i ‘paletti’ dello ius cogens universale e procedere nell’ottica di garantire, non di condizionare o restringere, la sfera di indipendenza e imparzialità dei giudici. Occorre ribadire, opportune et inopportune, che la filosofia morale e giuridica dei diritti umani è quella del procedere sulla via del migliorare e del perfezionare, non del regredire.
C’è la garanzia della pubblicità delle udienze: i procedimenti ‘a porte chiuse’ sono, devono costituire delle eccezioni. Faccio notare che in non pochi casi si rende necessaria e utile la presenza alle udienze di delegazioni di osservatori internazionali, soprattutto di organizzazioni non governative quali Amnesty International e Human Rights Watch.
Un’ulteriore garanzia sta nei tempi, che devono essere rapidi (si parla anche di tempi ragionevoli) sia quanto ad apertura dei procedimenti sia quanto ad espletamento dei medesimi. La tempestività, così come l’osservanza dei parametri di indipendenza e imparzialità, dipende sia da fattori obiettivi – buone leggi, codici non farraginosi, organizzazione degli apparati, ecc. – sia da fattori che attengono alle qualità personali dei giudici: senso della legalità, competenza tecnica, rigore morale, incorruttibilità, consapevolezza di esercitare il massimo dei poteri, qualcosa che somiglia, quanto meno metaforicamente, ad un diritto di vita o di morte sulle persone. Per i magistrati occorre una marcia in più: la particolare sensibilità che discende dall’interiorizzazione del codice universale dei diritti umani. All’interno della scuole di specializzazione forense deve essere dato maggiore rilievo alla conoscenza ‘interdisciplinare’ di questa materia.
Anche in questo campo deve funzionare una pedagogia del giudicare e, come per qualsiasi disegno educativo e formativo degno di questo nome, lumeggiare e seguire l’esempio è essenziale: tra gli altri esempi, che sono numerosi, quello di Rosario Livatino, il giudice ragazzino assassinato da un commando della mafia il 21 settembre del 1990.
Tutti i magistrati devono essere consapevoli di essere ‘difensori dei diritti umani’, valgono anche per loro le garanzie proclamate dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti”. Questa Magna Charta dei difensori dei diritti umani accomuna i magistrati alla schiera dei ‘persuasi’, anche dei più umili, i quali operano per gli ideali di giustizia buona e giusta, riassumibili in: ‘tutti i diritti umani per tutti’.
- Dall’Enciclopedia Treccani, voce “Separazione dei poteri”:
La separazione dei poteri è uno dei principi cardine del costituzionalismo liberale e tale da connotare in buona parte le stesse democrazie costituzionali (Forme di Stato e forme di governo; Democrazia). Benché l’idea delle tripartizione delle funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, esecutiva, giudiziaria) si ritrovi già in Aristotele, l’idea della separazione dei poteri è assai più recente ed è riconducibile a Montesquieu, il quale aveva messo in evidenza la necessità che queste tre funzioni fossero affidate a organi diversi, in posizioni di reciproca indipendenza tra loro, al fine di evitare che potesse essere minacciata la libertà. Una diversa separazione dei poteri era stata altresì teorizzata da Locke, il quale aveva distinto il potere legislativo, il potere esecutivo e il c.d. potere federativo (cioè il potere di stipulare trattati, stringere alleanze e di muovere guerra). Nella visione lockiana, il potere giudiziario, conformemente alla tradizione del common law, era considerato una branca del potere esecutivo, anche se quella stessa tradizione aveva distinto, sin dai tempi di Bracton (XIII secolo), tra gubernaculum e iurisdictio, cioè tra la sfera del potere governativo vero e proprio e quella del potere giudiziario.
Il principio della separazione dei poteri ha poi trovato la sua massima realizzazione storica nelle grandi Rivoluzioni dell’età moderna e nei coevi documenti costituzionali. Sia quella inglese che quella americana che quella francese prevedevano, infatti, forme di organizzazione costituzionale caratterizzate da una rigida separazione dei poteri: la monarchia costituzionale (cioè una forma di governo caratterizzante l’esperienza inglese dalla fine del XVII alla fine del XVIII secolo, nonché la Cost. Francia 1791); la repubblica presidenziale (Cost. U.S.A. 1787); la repubblica direttoriale (Cost. Francia 1795; Forme di Stato e forme di governo). D’altra parte, il fatto che la separazione dei poteri fosse la stella polare del costituzionalismo moderno è attestato all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789, ove viene testualmente affermato che «ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è determinata non ha una costituzione».
Con il XIX secolo e l’affermarsi del regime parlamentare (Controfirma ministeriale; Fiducia parlamentare), il principio della separazione dei poteri viene riletto alla luce dell’evoluzione costituzionale: alla rigida separazione tra il potere esecutivo e il potere legislativo che caratterizzava le prime carte costituzionali si sostituisce l’idea – enunciata da W. Bagehot – della fusione dei poterie, correlativamente, emerge un quarto potere distinto dagli altri tre, quello del Capo dello Stato, qualificato, sulla scia di B. Constant, come «neutro». Successivamente, con l’avvento dello Stato democratico il principio della separazione dei poteri viene profondamente trasformato rispetto alle sue origini, tanto che alcuni studiosi hanno persino dubitato della sua effettiva vigenza nello Stato contemporaneo. A tale proposito, occorre ribadire che il significativo aumento dei poteri normativi del Governo(Decreto-legge; Decreto legislativo; Delegificazione), la presenza di una legislazione sempre meno generale e astratta (Legge) e l’emergere sulla scena di nuovi organi, come la Corte costituzionale e le autorità amministrative indipendenti.